Da Robert Redford, sfortunato navigatore solitario nel recente lungometraggio “All is lost di J.C.Chandor, ad Henry e Vincendon, Kurt Diemberger, Severino Compagnoni, un filo invisibile collega le storie dei naufraghi a tutte le quote, quando soltanto la fortuna e un’innata volontà di vincere il destino ci può salvare.
♥ TLS (tempo lettura stimato) = 6 min.
Ricordate i naufraghi del Monte Bianco Henry e Vincendon inchiodati dalla bufera nel 1957 sul Grand Plateau e invano soccorsi da un elicottero il cui relitto diventerà la loro bara?
Poveri ragazzi, fino all’ultimo, come magistralmente racconta Yves Ballu in “Naufragio sul Monte Bianco (Vivalda, i Licheni, 1997) non vollero arrendersi all’evidenza che tutto per loro era perduto. Ne è invece consapevole il vecchio Robert Redford, protagonista sugli schermi di “All is lost – Tutto è perduto” diretto da J.C. Chandor, in cui si racconta lo spettacolare naufragio di un velista solitario bersagliato dalla malasorte.
Cambia lo sfondo, sia che si tratti dei ghiacci eterni sia che lo sguardo si perda negli sconfinati orizzonti dell’oceano, ma la sostanza rimane la stessa. L’uomo si avvinghia alla sua volontà di sopravvivere, in lotta soprattutto con se stesso alla scoperta dei propri limiti. La dignitosa compostezza di Redford per tutta la durata del film non è casuale.
Solo razionalizzando la situazione e impegnandosi in una continua ricerca di soluzioni alternative si riesce a farla franca come ha dimostrato un grandissimo alpinista, il salisburghese Kurt Diemberger, che nel 1986 sopravvisse per cinque giorni a ottomila metri sul K2 senza più viveri né gas per il fornellino.
“Non bisogna mai dimenticare che l’uomo, fra tutti gli animali, è quello che rivela le migliori doti di adattamento a ogni situazione”, spiega Kurt che quella volta rimase prigioniero con altri compagni in una piccola tenda trasformatasi in una bara di ghiaccio dove il gelo e il vento contribuirono alla progressiva e, in quattro casi, letale disidratazione degli sventurati alpinisti.
Altri esempi in proposito non mancano. Assediati dalla bufera che imperversava sul ghiacciaio della Vanoise, nel 1999 tre scialpinisti francesi sono sopravvissuti chiudendosi per nove giorni in un buco della neve.
Il 31 gennaio 1961, in un inverno gelido in cui l’Italia si appresta a festeggiare il suo centenario, il valtellinese Severino Compagnoni, una gloria dello sci di fondo e gran montanaro, rimane intrappolato in un crepaccio per quattro giorni.
E ora, inevitabilmente, il film di Redford richiama il cultore di cinema a un rinomato thriller alpinistico approdato sugli schermi, “La morte sospesa” (Touching the Void) tratto dall’omonima testimonianza (Vivalda, i Licheni, 1992) dell’inglese Joe Simpson. Che sopravvive in modo inaspettato, con caparbietà, a un gravissimo incidente sulle Ande dopo che il compagno di scalata, per salvarsi, ha tagliato la corda che li unisce. Un altro tipico esempio di ciò che gli esperti definiscono un survival movie basato sulla volontà di vincere la sfida con un destino avverso. “Devo ancora abituarmi all’essere qui: un’impressione di solitudine, terrificante ed entusiasmante al tempo stesso”, annota il redivivo Simpson al campo base del Siula Grande nelle Ande Peruviane, dove ha vissuto la terribile avventura.
Difficile spiegarsi la ragione di tanto entusiasmo. E’ l’allegria dei naufraghi, si usa dire. L’azione per sopravvivere genera talvolta insospettabili euforie. Nel 1876 Viollet-Le-Duc così si espresse: “Sempre si trovano uomini che affrontano il pellegrinaggio verso l’ignoto. Molti, malgrado le fatiche, i pericoli, le privazioni, lo ricominciano senza sosta. E’ una passione, come il gioco”.
Di sicuro vi sono persone che hanno una straordinaria capacità di resistere nelle situazioni più disperate, di sperare quando tutto sembra perduto. I racconti dei sopravvissuti ai gulag e ai campi di sterminio dimostrano ancora una volta che, accanto a coloro che vengono presi dallo sconforto e crollano, vi sono individui che sopravvivono senza perdere la speranza. “Lo sconforto”, spiega il sociologo Francesco Alberoni, “è una terribile lusinga, una pericolosa seduzione. Si insinua nel cervello come una droga”. E ancora. Dai fronti della Grande Guerra tornarono vivi soprattutto quelli che erano partiti con la certezza di farcela.
Con Redford, tornando al film “All is lost”, tutto comincia quando il solitario velista si sveglia di soprassalto nella sua confortevole cuccetta dopo che un container abbandonato e galleggiante ha “ferito” a morte il suo natante. L’acqua invade le carte nautiche, si riversa sulla radio trasmittente, allaga irrimediabilmente il cockpit e a nulla vale un sommario rattoppo con resine epossidiche.
Poco male se l’oceano rimanesse a lungo quella placida e inoffensiva laguna che li per li appare. Una volta salito in testa d’albero, il vecchio skipper avverte invece un terrificante brontolio: è l’avvicinarsi della tempesta che manda a picco il suo sloop. L’odissea continua così a bordo di una zattera autogonfiabile dove, seguendo le istruzioni, il naufrago impara a fare il punto con un vecchio sestante (le tecnologie digitali avanzate non sono amiche dei naufraghi…), ma nel lento avvicinamento alla terraferma deve affrontare nuovi agguati dovuti non soltanto agli squali che infestano quelle acque.
Dispiace un po’ che nel raccontare la trama di questo film, in cui Redford soltanto una volta si abbandona alla disperazione, nessuno abbia ricordato quanto analogamente avvenne nel 1978 al milanese Ambrogio Fogar al largo delle isole Falkland nel Sud dell’Oceano Atlantico, quando la sua imbarcazione venne colpita da alcune orche e affondò in poco tempo. Con lui c’era il suo amico e compagno di viaggio, il giornalista Mauro Mancini. Riuscirono a portare con loro sulla zattera autogonfiabile di salvataggio, oggi esposta al Museo del Mare Galata di Genova, solo un po’ di zucchero e un pezzo di pancetta e due cormorani uccisi a colpi di remi. Dopo 74 giorni vennero finalmente individuati e soccorsi da un mercantile greco.
Fogar, a differenza del compagno, riuscì a sopravvivere. Ma il destino lo costrinse a una prova ancora più dura: resistere fino alla morte per 12 anni in un letto, colpito da tetraparalisi in seguito a un incidente, aggrappato a un filo di speranza.
“Le nostre capacità di reazione davanti ad ambienti estremi effettivamente non le conosciamo fino in fondo”, è il parere del professor Francesco Conconi, già direttore del Centro di studi biomedici applicati allo sport dell’università di Ferrara, “ma sono spesso superiori a ogni immaginazione come dimostrano i bivacchi a quota ottomila di Bonatti e la sopravvivenza in ambienti ostili di alpinisti come Simpson con fratture esposte e congelamenti. L’organismo in effetti mette in moto una serie di ormoni legati allo stress che fanno fare cose straordinarie liberando del combustibile di emergenza in modo che la macchina continui a funzionare. Non sono di sicuro i farmaci a farti venir fuori da una situazione del genere, bensì la forza dell’organismo. Qui verrebbe a innescarsi un altro ipotetico tipo di sport di resistenza: la gara fra chi dispone dei migliori ormoni di risposta allo stress…E questo non è certo uno sport che consiglierei d’inserire tra quelli ammessi alle Olimpiadi”.
Non saranno certo i farmaci a farci uscire da situazioni a dir poco incresciose, come giustamente osserva il professor Conconi. Ma nemmeno le attrezzature high tech che oggi ci accompagnano nell’avventura, come si evince dal film con Robert Redford, garantiscono la nostra sopravvivenza né alleviano la nostra solitudine. Questo per dire che i confini dell’avventura sono piuttosto difficili da definire come si era notato nel 1989 al TrentoFilmfestival all’epoca diretto da Emanuele Cassarà nel corso di un dibattito sull’argomento con personaggi del calibro di Fosco Maraini, Reinhold Messner e Alfonso Vinci.
In quella circostanza il celebre skipper di “Azzurra” Cino Ricci osservò che mentre in montagna, in una grotta o nel deserto di si può fermare per riposarsi, oppure per pensare, in barca a vela è impossibile fermarsi. Uno continua in certe condizioni, Redford docet, a essere sballottato e deve continuare ad andare e andare anche se vorrebbe “scendere”, cosa naturalmente impossibile.
In linea teorica da anni si cercano analogie tra il veleggiare estremo e l’arrampicata nell’aria sottile. Cecilia Carrreri, alpinista e velista vicentina, oggi editrice di una collana di libri significativamente intitolata ”Mare verticale” è convinta che nessuna traversata oceanica può essere paragonata alla scalata di un ottomila. “L’impegno fisico disumano, la permanenza nella zona della morte (oltre gli 8 mila metri), i disturbi fisici da alta quota spesso mortali non sono paragonabili con la navigazione estrema”, spiega. “Eppure la calma e l’autocontrollo che devi dimostrare quando sei appeso in parete a un vecchio chiodo sopra centinaia di metri di vuoto sono aspetti dello stesso equilibrio che è necessario per restare un giorno e una notte al timone con 33 nodi di bora, senza mangiare e dormire, come mi é successo in Croazia”.
D’accordo con Ricci, Cecilia argomenta che in navigazione é decisivo soprattutto il rapporto che hai con la barca. Non sempre però, come si è visto, la barca é un rifugio, é la salvezza. “Quando sei in parete fai una doppia e scendi. In mare devi restare a lottare”, spiega la Carreri. Che per nessuna ragione al mondo rinuncerebbe a navigare in solitaria sul suo amato sloop. Ma nemmeno a ricevere l’insidioso abbraccio dei Monti Pallidi lungo le più impervie vie di salita di cui è un’abituale ed entusiasta frequentatrice.
1 commento/i dai lettori
Partecipa alla discussioneUna lettura in stile colloquiale, in cui si possono cogliere parecchi spunti di riflessione. Davvero piacevole. Grazie.