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Se tante tradizioni montane si perdono nel tempo, altre perdurano e superano quasi intatte la prova dei secoli. Così è per l’Autani di Set Frei, una tra le processioni più lunghe delle Alpi, tra quelle di un solo giorno, che si tiene sin dai tempi della pestilenza del 1640.

E’ l’unico giorno dell’anno in cui la mia sveglia suona alle tre. E’ la terza domenica di luglio (21 luglio 2015 quest’anno) e per il piccolo paese di Montescheno, in valle Antrona (VB,) è un giorno davvero speciale.
Quali siano i motivi che decidono il successo o l’abbandono di una pratica secolare non è sempre facile dire, e potremmo chiamare in causa la coesione comunitaria, l’amore per il territorio, la religione e la fede. Ma forse è proprio lo strano equilibrio di elementi pagani e devozionali, insieme alla la sua non esclusività, il segreto di un rito che anche dopo secoli non mostra segni di stanchezza. Ciò che è sicuro è che la comunità di Montescheno ama moltissimo l’Autani di Set Frei a cui, grazie a una cara amica, ho avuto la possibilità di partecipare per la prima volta tre anni fa e da allora è per me un appuntamento irrinunciabile.

LA PROCESSIONE PARTE ALLE 4,30 DI MATTINA DALLA CHIESA DEL PAESE
e si muove lungo un percorso di ventiquattro chilometri e circa 1400 metri di dislivello. I nomi che sto per elencare non diranno probabilmente alcunché alla maggior parte dei lettori, ma lasciatemeli pronunciare, per riportarli alla vita una volta di più, giacché ormai solo le vecchie carte Svizzere li segnano con precisione (quelle nuove già meno).
Aulamia e Vallemiola sono le prime frazioni alte di Montescheno in cui ci si ferma per le preghiere dell’alba. Baite ristrutturate, una fontana, profumo di erba tagliata, caffè e tè caldi offerti ai viandanti. A Vallemiola è quasi luce, si spengono le frontali, si riempiono le borracce e ci si dirige verso il colle del Pianino, mentre i profili delle montagne iniziano a delinearsi più netti. L’intero percorso è accompagnato dai canti delle donne di Montescheno, con una bellissima versione polifonica del Miserere e del Kyrie che risuoneranno per l’intera giornata.
Al colle del Pianino, dopo aver percorso circa mille metri di dislivello, si recitano le esequie e si avvertono i partecipanti che si tratta dell’ultimo punto utile per tornare indietro: chi prosegue dovrà portare a termine l’intero giro. Ci si dirige così verso una serie di alpi ormai abbandonate. La prima è l’alpe Saudera, a cui si giunge camminando tra rododendri e rari larici, mentre il panorama si allarga ad abbracciare la Weissmies, il monte Cistella e il pizzo Diei.

SE IL TEMPO È BELLO, LA VISTA SU QUESTI MONTI STUPISCE
inaspettata, e se come dice santa Teresa le preghiere esaudite sono quelle su cui versano più lacrime, è quello che non si sa desiderare a lasciare invece senza parole.
Le alpi qui attorno, come dicevo, sono abbandonate e sempre meno in valle sono le persone che praticano agricoltura ma giunti alla croce di Saudera, si invoca la benedizione sulle campagne secondo le antiche rogazioni: “Ut fructus terrae benedicere conservare et multiplicare digneris”. In ogni epoca, del resto, serve che la terra dia i suoi frutti.
Il “Procedamus” del parroco fa riprendere la marcia. Si passa così per l’Alpe Scatta, anch’essa ormai chiusa, 4 e si raggiunge il passo di Arnico o Arnigo, il punto più alto dell’intero giro, poco sotto i duemila metri.
Per un lungo traverso che segue la testata della Val Brevettola, tra ambienti severi e selvaggi, si giunge scendendo ai pascoli dell’alpe Campo. E’ un tratto molto suggestivo, nonché il più delicato dell’intero percorso. A Campo, si beve l’acqua direttamente dal torrente. Nessuno carica più le alpi di questa conca e l’acqua è del tutto incontaminata. Si risale così al passo di Ogaggia, ultimo tratto in salita del percorso e si scende alla Forcola, dove ci si concede una lunga sosta per il pranzo.

E’ UN MOMENTO DI GRAN FESTA IL PRANZO, DOVE CI SI SCAMBIANO CIBI, VINI
– soprattutto vini – chiacchiere, dove si canta o si dorme, dove ci si tolgono le scarpe, dove la parola fretta è bandita, anche se dall’altra parte della valle risuona cupo un temporale.
Sono ormai le tre e mezza quando la marcia riprende adesso in discesa, verso la croce dei Set Frei. Il temporale che si vedeva da lontano durante il pranzo si è avvicinato e ci regala una buona mezz’ora di acqua, per fortuna senza infierire troppo. Quando arriviamo alla croce di Set Frei del temporale rimane solo un grandioso arcobaleno ed è tempo di intonare tutti insieme il “Signore delle Cime”. Le ultime tappe sono  gli alpeggi di Pianzaccia, oggi utilizzati come seconde case e la radura della Motta. Qui gli abitanti di Montescheno che non hanno partecipato alla processione portano la cena ai viandanti in arrivo. I bambini, gli anziani, chi semplicemente non ha voglia di camminare si ritrova qui, per cenare insieme. Il ritorno a Montescheno è una sorta di entrata trionfale: le campane a festa, la gente per le strade che saluta e che applaude, l’entrata in chiesa con gli ultimi canti e infine la messa, a chiusura della giornata.

MA CHI SONO I “SET FREI” E CHE COSA SIGNIFICA “AUTANI”?
La tradizione vuole che i sette fratelli Martini fecero per la prima volta l’intero percorso addirittura in ginocchio e in sette giorni, per allontanare il pericolo della pestilenza del 1640. “Autani” è invece una contrazione del termine “litanie”, che vengono recitate nel corso della processione. A proposito dei tempi antichi, il sito del comune di Montescheno riporta il seguente passaggio tratto da una lettera scritta nel 1792 dal prevosto vescovo di Novara:

“A questa processione concorre il nervo della brillante gioventù dell’uno e dell’altro sesso, munita di buona provvisione… Potrebbe essa considerarsi pericolosa per la gioventù attese le frequenti salite e discese, che debbonsi fare nel giro dei monti, nonostante tutte le precauzioni che si usa, col comandare alle donne che nelle salite tengano il luogo dopo gli uomini, e nel discendere precedano gli stessi uomini, per così procurare il più possibile modestia ed onesta.”

Ecco, oggi quest’ordine rigoroso, che vuole le donne dietro gli uomini in salita e viceversa in discesa, affinché le gambe non possano essere guardate mai, non si osserva più, ma anticamente la promiscuità era una preoccupazione comune legata alle processioni montane, basti pensare che anche in occasione del lunghissimo pellegrinaggio che dalla Val Formazza raggiungeva il Passo di San Gottardo – oggi non più praticato – si raccomandava con insistenza “homini divisi dalle donne”.

SONO CIRCA CENTOCINQUANTA LE PERSONE CHE OGNI ANNO SI DANNO
appuntamento in Valle Antrona la terza domenica di luglio. Naturalmente la maggior parte sono gli abitanti di Montescheno, ma non mancano persone dai paesi vicini e meno vicini.
Credo se una comunità è capace di condividere un’esperienza come questa con tante persone che vivono al di fuori di essa, senza mai perdere la propria identità e senza in nessun modo trasformare una tradizione in uno dei tanti riti turistici senz’anima, sia di per sé un grande valore.
Credo che alla fine si tratti di un’esperienza che, semplicemente ma non troppo, è capace di generare appartenenza, un’appartenenza sana, che è ciò di cui tutti alla fine hanno bisogno. E’ bello il coinvolgimento dei giovani, è fonte d’ispirazione la grinta di tanti anziani, è ammirevole il volerci essere di chi ne percorre solo un breve tratto o esce sul balcone a salutarci mentre passiamo la sera per le vie del Paese.
Quest’anno, a La Motta è stato piantato un piccolo maggiociondolo, con l’augurio di diventare l’albero di L’Autani per il tempo a venire. Spero di vederlo fiorire e il suo tronco ingrossarsi, e di avere gambe buone e voglia di puntare la sveglia alle 3 ancora per molto tempo.

Simonetta Radice autore del post

Simonetta Radice | Giornalista pubblicista, addetta comunicazione. Da sempre amo la montagna e tutto ciò che ha a che fare con essa. La libertà è un poco al di là delle tue paure. Vivo tra Milano e Gignese (VB) e questo è il mio blog http://estateindiana.wordpress.com/

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