In uno degli ultimi numeri della Rivista del Club Alpino Italiano c’era un editoriale che incentrava l’attenzione sulla scarsa frequentazione della montagna nell’estate scorsa.
L’editorialista liquidava l’argomento con poche righe e mettendo l’accento sul prototipo dei nuovi frequentatori: per lo più gente che si accontenta di giungere in rifugio per pranzare.
Il pezzo mi ha dato lo spunto per approfondire l’argomento per cercarne ragioni, motivazioni, mode, filosofie, altre verità.
A voler essere egoisti verrebbe da dire “meglio così!”, se quello che si riscontra e se ne deduce è il modo di andare per i monti; abbigliamento da spiaggia, sentieri simili ad autostrade, rifugi chiassosi come bar e presi d’assalto per prendere il sole e chiedere piatti tipici.
In realtà sarebbe troppo semplicistico eludere così il tema proposto dall’editorialista; come tutte le cose abbisogna di riflessione, indagine, studio, approfondimento. Una cosa è certa: la frequentazione della montagna è anche specchio della nostra società e del nostro vivere, con tutto quello che di buono e cattivo ci portiamo dietro.
Nessuno, se non pochi e per lo più longevi frequentatori, ha più voglia di far fatica, “sporcarsi” le mani, sudare e tanto meno rischiare per qualcosa di effimero, il raggiungimento della vetta di un monte, la ripetizione o l’apertura di una via su roccia, o una qualsiasi altra mèta, sia essa una forcella, un rifugio o un punto panoramico.
Oggi, nell’era del computer, del virtuale, degli incontri a distanza, della vita sedentaria, per lo più davanti ad uno schermo a pigiare bottoni, nell’epoca dove i lavori così detti “sporchi”: falegname, operaio, netturbino, cameriere, muratore, contadino che un tempo erano dei nostri padri e ora per buona parte di extracomunitari disperati, disposti a tutto pur di un lavoro, abbiamo perduto l’uso delle mani, l’arte dei mestieri antichi e forse anche l’uso dei piedi.
In un tempo, il presente, nel quale moltissimi si sono messi a praticare il nordic-walking, con tanto di corsi, insegnanti (come ci voglia qualcuno che di dica come si cammina per strada o lungo la riva di un fiume) e sopratutto di bastoncini telescopici (diventati ormai una moda e business per i negozi che gli vendono), dove si preferisce la palestra d’arrampicata (al coperto), piuttosto che la falesia o la via in ambiente (non protetta a spit), oggi che già costa fatica prendere la bicicletta per recarsi al lavoro, a scuola o a far la spesa, non stupisce più di tanto questa poca o nulla frequentazione di vie normali, vie classiche di roccia, viàz battuti dai camosci, cenge o sentieri lunghi e con notevoli dislivelli.
Ormai questi percorsi sono diventati motivo di vita, espressione e ricerca, solamente per pochi appassionati disposti ancora a far fatica e trovarne in questa gratificazione.
Mi stupisco quando ogni anno, ormai da diversi, leggo tra le pagine della Rivista che il numero degli iscritti al Cai aumenta: mi pare siamo oltre i 310.000! A leggerla così, la notizia, sarebbe da crogiolarsi e sfregarsi le mani dalla soddisfazione, motivo d’orgoglio.
Ma chi sono questi che vogliono far parte di un’associazione che sta per compiere 150 anni di vita? Cosa cercano e si aspettano dal club e dalla montagna? La amano davvero? Prendono soltanto o lasciano anche qualcosa? Instaurano un rapporto, un’alleanza, stabiliscono un atto di fede con questa Terra Alta, oppure la montagna è solo un diversivo e l’alpinismo, in tutte le sue forme, un gioco nella quale mettersi alla prova e/o farne motivo di vanto, sfida con lei, noi stessi e egli altri? C’è qualcosa di più profondo che anima questa massa che volge ai monti?
C’è solo tanta cifra oppure anche qualità in questo movimento che sulla carta si dice di amare la montagna?
Al di là di tutte le possibili risposte, a me i conti non tornano; c’è qualcosa che non quadra e non riesco a capire l’equazione: 310.000 iscritti al Cai (pseudo amanti della montagna) e neppure 1000 iscritti a Mountain Wilderness (associazione che non limita l’andare in montagna, ma ne tutela e valorizza l’ambiente, il patrimonio naturale e culturale in essa contenuti).
Forse bisognerebbe partire da qui, ma non solo, per indagare le cause della poca voglia di fatica e cultura in montagna. Che la montagna non abbia bisogno di noi, ma noi di lei, questo è certo, che la montagna ci sia diventata antipatica o fuori moda, questo non lo credo.
Oggi c’è un altro uomo e un altro modo di approcciare che muove passi diversi. Che le vie classiche, le normali, i percorsi lunghi e impegnativi, le alte vie e i sentieri non segnati siano oggi poco frequentati o del tutto dimenticati, questo è un dato che negli ultimi 10 anni ho avuto modo di constatare praticando questo tipo di montagna, peraltro confermato anche da molti altri amici.
In certi luoghi della montagna, ci si trova soli, raramente s’incontra qualcuno, eppure oggi si hanno più informazioni sugli itinerari, sulle previsioni del tempo, si hanno più mezzi e strumenti, e forse anche più tempo a disposizione. Ma manca qualcosa, come del sale nella minestra, l’amore che dà il senso a un rapporto di coppia, un fiore nel giardino, manca la passione, l’unico ingrediente che fa muovere anche le montagne; e questa, non si compra a peso al mercato!
La passione si alimenta, si fa propria con l’esperienza, col dare un senso e un valore ai propri gesti e nell’ottenere le cose con la fatica. C’è più gusto nel mangiare dopo avere lavorato per guadagnare quel cibo. Sta nel senso delle cose, quel senso che forse abbiamo perduto.
Nell’ultima sua passeggiata, al quale ho avuto l’onore e il piacere di fargli da accompagnatore, Mario Rigoni Stern mi disse: «questa umanità è giunta al capolinea, così non si può più andare avanti».
Questo uomo dovrà scomparire e rinascere a cosa nuova, altra, ravvedersi e rivedere attentamente la strada che l’ha portato al limite dell’autodistruzione.
Anche gli alpinisti e gli escursionisti (sopratutto quelli provenienti dalle città) dovranno ripensare a un nuovo modo di camminare e arrampicare; non è obbligatorio, ma se veramente si vuol trovare ragione profonda per mettersi in discussione, guardare e vivere la montagna in maniera sincera e autentica, diversa da quella che sta diventando prodotto di un consumismo che omologa tutto rubando l’anima, un cambiamento di rotta è d’obbligo.
La montagna insegna che a volte, piuttosto che andare avanti è meglio tornare indietro; che, giunti davanti un baratro dopo tanto camminare, il dover ritornare sui propri passi non è sempre un fallimento, ma esperienza e il tempo impiegato motivo per comprendere quale sia la via giusta.
Arrivando alla montagna “tardi” e per la perdita della “mia” campagna, cercando in questa gli elementi (terra, aria, acqua, fuoco, etere), ho trovato nella montagna un luogo, una storia, una cultura dove esprimermi, ritrovarmi e sentirmi profondamente uomo. Nei monti posso bere l’acqua dalla roccia, respirare a pieni polmoni, inoltrare i sogni a un orizzonte non occluso da pareti di cemento, dall’alto di un monte posso osservare il miracolo del giorno che nasce e muore, quel rossore che timido fa commuovere, posso osservare l’Ovest che s’indora grande come non so, tra i monti posso esprimere la mia felicità, ritrovare la natura, il silenzio, un’autenticità data dalla selvatichezza dei luoghi, posso ascoltare e facendo vuoto riscoprire la spiritualità di cui, come ogni essere, sono essenza e parte di tutto il creato.
Ecco, è questa terra sepolta da asfalto e cemento che ci manca e fa andare a cercarla anche in alto. Ci manca la bellezza che è in ogni cosa e forma e di cui l’uomo anela con disperato bisogno. Sia essa fisica, spirituale, paesaggistica, artistica, poetica, la bellezza è in ogni-dove e da sempre, fin dalle antiche civiltà, l’uomo, esploratore dei sensi, dell’ignoto e del suo limite, la cerca. Dobbiamo cercarla e viverla questa bellezza, piuttosto che guardarla, osservarla con altri occhi e cogliere con un altro tatto, più affinato e sensibile, questo valore di terra-roccia che è diventato vitale.
Ma a mio avviso c’è un altro aspetto di fondamentale importanza che fa, come scriveva l’editorialista, mancanza. C’è un vuoto, manca la cultura della montagna.
Premesso che ognuno, nel rispetto dell’ambiente e degli altri, è libero di fare quello che più gli aggrada, assistiamo oggi a tutto un movimento di giovani che si affacciano alla montagna, all’arrampicata e all’alpinismo bruciando tutte le tappe, disdegnando quella gavetta che, seppure dura ed impegnativa, alla lunga rimane base indispensabile per ergersi, radice dell’albero che s’innalza.
Sono molti i giovani che oggi sono in grado di fare un 7a o un 8b in falesia. Questi arrivano dal nulla e con un po’ di esercizio fanno in palestra quello che i ginnasti fanno al tappeto, alla sbarra, agli anelli o al cavallo. Evoluzioni e numeri straordinari, da acrobati. Ma quanti di loro sanno poi trasferire in montagna quanto riescono a fare protetti al chiuso? Quanti di questi giovani hanno un dialogo con la montagna, conoscono la storia dell’alpinismo e dei luoghi frequentati? Quanti sanno distinguere un fiore, una pianta, un uccello, un animale, un segno della vita montana? Quanti di loro sanno l’origine e il senso di una via, sentiero, viàz, cengia o mulattiera che un tempo aveva/no altro scopo rispetto l’uso ludico, anche se appassionato, che se ne fa oggi?
Da oltre vent’anni promuovo una rassegna dedicata alla montagna e, nel corso del tempo, cercando di captare le attenzioni del pubblico, ho potuto constatare che gli appassionati non si accontentano più di oratori che raccontano i propri exploit al limite del possibile, appesi con due dita al vuoto di una parete o ansanti lungo la via di un ottomila. La gente comune cerca anche e sopratutto una storia nella quale immedesimarsi, non un confronto nella quale uscire sconfitti in partenza. Non importa chi sia il cantastorie, può essere un camminatore sconosciuto o un conoscitore della cultura e gli ambienti della montagna, capace di trasmetterli. La gente che va per sentieri facendosi bastare i propri limiti e che si accontenta di una bella giornata a un passo dalle nuvole, non acclama più quelli che sono stati i super eroi delle “conquiste”, in voga negli anni ’30, ’40, ’50 …, ma l’alpinista, l’uomo che toglie la maschera, si spoglia e mostra tutte le sue debolezze, l’uomo che ha il coraggio, gli stimoli e la forza per andare avanti, e non solo in montagna!
Questo è un messaggio non indifferente e dovrebbe far riflettere sul come muovere passo tra le pieghe della promozione alpina.
A proposito del bisogno di storie, non si spiegherebbe altrimenti il successo straordinario che Mauro Corona ha con i suoi libri che trovano origine e scenario fra i monti; storie che non esaltano la figura del montanaro, che non dipingono la montagna come il luogo bucolico sognato dal cittadino, ma raccontano e mostrano, anche in modo autobiografico, un mondo difficile, dove ogni cosa si guadagna con grande fatica, consumandosi in una vita grama e a volte perdente; Mauro racconta di uomini con tutte le proprie paure, debolezze, incertezze, sogni e desideri che sono propri del genere umano.
Abbisognerebbe di un tavola rotonda questo “vuoto della montagna”, magari di una camminata silenziosa in mezzo agli alberi, piuttosto che tra il limite di spazio di queste pagine.
Seppure consapevole dell’impegno che in questi anni il Cai, attraverso il Comitato Scientifico e altri gruppi, ha profuso nel promuovere l’ambiente e la cultura della montagna, devo altresì dire che c’è ancora molto da fare per cercare di trasmette alle nuove leve, ma non solo, dei valori altri e alti dell’andare in montagna.
Più che aspirare ai grandi numeri, magari vuoti, sarebbe auspicabile trovare nei pochi tanta coscienza ambientale. Più che a forgiare provetti alpinisti o escursionisti esperti, sarebbe il caso di iniziare alla montagna un uomo nuovo capace di fare propri tutti i messaggi rimandati dall’ambiente naturale e dalla saggezza dei vecchi montanari. Non tanto per una fuggevole domenica in montagna, ma per una quotidianità che, ahimè, più di una volta ci mette di fronte, non l’Everest o a un 9b, ma a prove ben più improbe.
È per questo che forse si è perso o si è fatto vuoto della memoria e della sapienza della montagna, del suo valore intrinseco e dell’insegnamento che, noi di città, noi di bassa quota e poca terra, dovremo invece fare nostri per vivere meglio qui e lì.