Il Siéf, con al centro la crepa prodotta dalla mina austriaca, visto dal Col di Lana (ph Claudio Loreto)

Il Siéf, con al centro la crepa prodotta dalla mina austriaca, visto dal Col di Lana (ph Claudio Loreto)

Non appena fui fuori di casa i brividi mi scombussolarono: quell’alba faceva più freddo del solito. Esitai per qualche attimo (dietro l’uscio il letto era ancora caldo), poi innestai risoluto il passo: la strada dall’abitato di La Villa al Col di Lana era piuttosto lunga.

Mi piaceva del resto girovagare per valli quando tutti ancora dormivano e dunque nessun suono umano disturbava lo stato di grazia in cui scivolavo attraversando radure e boschi, dove cancellavo i pensieri e diventavo ingordo di sensazioni; così quella mattina, di nuovo, lo scoscio del torrente Giaric mi trasmise un senso di purezza, i prati vellutati dell’Armentarola mi saziarono di quiete e le fantastiche guglie delle Conturines mi accesero di meraviglia.
Mi domandai con quali occhi avevano però osservato quei medesimi luoghi i giovani sepolti nel piccolo cimitero militare tedesco che toccai poco prima di raggiungere il Passo Valparola: un secolo prima, infatti, le montagne sopra avevano avuto il volto della morte.

La trincea austro-ungarica  lungo il crinale del Siéf  (ph Claudio Loreto)

La trincea austro-ungarica lungo il crinale del Siéf (ph Claudio Loreto)

Sul valico si attardavano bave di nebbia che intirizzivano; mi concessi una tazza del tè bollente del Rifugio, alle spalle del quale poi imboccai il sentiero che conduceva sotto le pareti verticali delle Pale di Gerda e del Gruppo del Setsas, di cui costeggiai i lunghi basamenti forzando ulteriormente il passo nonostante marciassi più che spedito già da alcune ore. L’immenso silenzio nel quale avanzavo di tanto in tanto veniva rotto dai fischi acuti delle marmotte, come a rammentarmi che il mondo non appartiene soltanto all’uomo.

Superai il Passo Siéf e risalii la scoscesa e interminabile trincea che gli austro-ungarici avevano scavato lungo tutto il crinale del monte omonimo; quando trovai la via interrotta da un grande cratere restai interdetto: per sloggiare il nemico entrambi gli opposti eserciti avevano fatto esplodere più volte il Siéf (e altre montagne vicine), scavando nella sua pancia gallerie che terminavano con enormi stanze poi stipate di dinamite. Che “innovative” e del tutto inutili stragi: il fronte dolomitico non si era comunque smosso di una virgola!

Al di là del fosso si stagliava la mia meta, il Col di Lana, ribattezzato dai fanti “Col di Sangue” (infatti la contesa della sua vetta costò la vita di ottomila di loro). Mi calai nella spaccatura, saltellai tra i detriti dell’esplosione e poi, seguendo una malferma fune metallica dispiegata lungo la cresta, mi inerpicai su su fino alle croci poste sulla cima del Lana, resa tozza anch’essa nel 1916 da oltre cinque tonnellate di esplosivo. Per un po’, tutto solo, gironzolai su quel cucuzzolo, fotografando la cappelletta, un bivacco allestito dagli Alpini, l’obelisco eretto affinché si serbasse memoria dell’insensatezza della guerra e tutti i magnifici panorami che potei godere da lassù.

Avevo appena intrapreso la via del ritorno quando giù, lungo il fianco ripido della montagna, un riverbero del sole incerto di quel mattino richiamò la mia attenzione. Dal terreno affiorava infatti un oggetto, verosimilmente di metallo: un residuato bellico, riportato alla luce dal tardivo disgelo dell’inverno più nevoso degli ultimi trent’anni, oppure una moderna lattina gettata da un escursionista incivile? Incuriosito, mollai il cavo e discesi con cautela il pendio; tra le mani mi ritrovai così un astuccio ossidato, che faticai a schiudere: al suo interno una vecchissima stilografica, alcuni pennini e un foglio accuratamente ripiegato ma molto ingiallito, che apersi con estrema delicatezza temendo che potesse andare in mille pezzi. Guardai la prima riga “Sabato, 12 maggio 1917″ ed ebbi un sussulto. Poi – a fatica, poiché sbiadito dal tempo – lessi il resto.

Mia adorata,
più non ti angustierò con pensieri foschi come feci – senza sul momento avvedermene – nell’ultima mia, che fu dettata dai patimenti per il gelo e specialmente dal turbamento per la morte del caro capitano Silvestri.
Oggi – finalmente! – il sole illumina le trincee: si sono scaldati anche i cuori, perchè le armi tacciono. Posso dunque abbandonarmi alla contemplazione della Marmolada, del Sella e – volgendo gli occhi dall’altra parte – del Civetta: nonostante la guerra, mi è davvero impossibile avere in odio tanta superba bellezza! All’opposto, un tale Paradiso – nel quale gli scoppi appaiono ancor più sacrilegio – insegna ad amare il mondo come mai: così è con una nuova, immensa tenerezza nel cuore che si guarda un fiore fare capolino tra i sassi o si accarezza “Lampo” (così lo abbiamo battezzato!), il cane vagabondo e spaurito che trovò rifugio da noi un paio di mesi or sono (e che qualcuno, per lenire per una giornata i morsi della fame, invece aspira a mangiare!).
Pure in tempo di pace, tenere di più a mente che un giorno non ci saremo più gioverebbe a sgombrare la nostra esistenza dalle futilità, le inutili rabbie e le meschine invidie di cui essa è zeppa e a vivere invece con pienezza le cose davvero importanti, che sono poi poche ed ovvie. Conquisteremmo la serenità, che è somma ricchezza! Non credi anche tu, cara?
Dopo la guerra, allorquando la memoria di essa mi sarà forse divenuta un po’ meno dolorosa, chissà, potrei immaginare di affittare camera, in estate, nel paese di Cortina e condurre te e la nostra piccola Elisa a vedere questi luoghi pur tuttavia deliziosissimi: te ne innamoreresti subito, ne sono certo (e io diventerei un po’ geloso di loro).
Nel frattempo, insegna fin d’ora alla bambina ad inseguire con tutte le proprie forze i suoi sogni: se li realizzerà sarà assolutamente felice; nel caso invece non riuscisse, dopo i suoi giorni non sarebbero comunque avvelenati dal rimpianto di non averne avuto l’audacia.
Ora ti devo ahimè lasciare, perché ho da svolgere un giro d’ispezione. Attendo con ansia Vostre notizie. Un bacio. Sempre tuo,
Alberto
.

Quella lettera non era mai partita, dunque il soldato che l’aveva scritta probabilmente era rimasto ucciso: in quale punto del monte – mi chiesi guardando intorno – e come? E cosa ne era stato della sua famiglia? La figlia aveva poi avuto una vita felice?
Scavai lì stesso una buca con il pugnale che trasportavo nello zaino e vi seppellii dentro il ritrovamento: era giusto che quella manifestazione d’amore restasse per sempre dove si era manifestata.
Una girandola di pensieri mi accompagnò lungo tutto il tragitto di ritorno, fatto sotto una pioggia battente.
Non appena fui a casa, cercai mia moglie e l’abbracciai forte.

Claudio Loreto autore del post

Claudio Loreto | Classe 1960, vive a Genova. Tra i suoi interessi la Storia, i viaggi e lo sport: canottiere con un lungo passato agonistico, nel 2008 è stato insignito del premio Palmaremo dalla Federazione Italiana Canottaggio (della quale è stato anche dirigente territoriale) e nel 2011 della Stella di Bronzo al Merito Sportivo dal Comitato Olimpico Nazionale Italiano. Appassionatissimo di montagna, trascorre le proprie ferie sulle Dolomiti. E’ socio della Sezione Ligure-Genova del Club Alpino Italiano.

5 commento/i dai lettori

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  1. Cettina il2 giugno 2014

    GRAZIE.

    • Claudio Loreto
      Claudio Loreto il2 giugno 2014

      Grazie al te per il tempo che hai voluto dedicare al mio breve scritto. Purtroppo l’uomo non trae mai i dovuti insegnamenti dalla Storia, che eppure egli stesso scrive…

  2. Cettina il2 giugno 2014

    Emozionante la Tua lettera…. e cruda……!!!!!! Purtroppo la Guerra è un Male che affligge l’Umanità da tanto Tempo e i nostri libri di Storia ne sono una testimonianza triste. Mi Auguro che l’Umanità Tutta comprenda il Valore della Vita donataci da Dio…… Grazie……… Cettina

  3. Michele guyot Bourg il1 giugno 2014

    bravo! Anche se non sono un”alpinista” hai avuto la capacità’
    Di portarmi su quel monte e farmi vivere le tue emozioni.Michele
    ,m

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