Non si conosce con precisione l’itinerario seguito da Francesco De Marchi

quando, il 19 agosto del 1573, salì sul Corno Grande del Gran Sasso. E probabilmente non fu neppure lui il primo a raggiungere quella cima anzi, la sua guida, il cacciatore Francesco Di Domenico, gli aveva assicurato di essere già stato lassù. Fatto sta che il racconto che il capitano bolognese ne fece, appassionante e dettagliato, ritrovato solo nel 1938, ha legato per sempre il suo nome a questa conquista, spodestando nell’immaginario collettivo Orazio Delfico che era salito sulla vetta orientale del monte nel 1794.
De Marchi assunse lo statuto, come più di due secoli prima era successo a Petrarca sul Monte Ventoso, di pioniere dell’alpinismo moderno e anche lui grazie ad una relazione diventata celebre. Forza della letteratura!
A 69 anni l’ingegnere aveva alle spalle una brillante carriera militare. Conosceva l’Abruzzo per essere stato al servizio dei Farnese che in questa regione avevano dei possedimenti:

Il detto Monte era trenta du’anni che io desiderava di montarci sopra per levar le dispute dell’altezze di altri Monti. Così andassimo d’Aggosto l’anno 1573, il signor Cesare Schiafinato milanese, e Diomede dall’Aqquila. Et andammo ad un Castello nominato Sercio, potemmo trovar nessuno che mai ci fusse stato, dico alla cima, ancorché questo castello sia il più presso verso l’Aqquila. Mi fu detto che vi erano certi Chacciatori di Camocce che vi erano stati sopra, e così dimandai à molti di loro e non trovai se non uno, nominato Francesco Di Domenico, il qual’era stato alla cima un’altra volta, e malamente vi voleva più tornare.

De Marchi convinse Di Domenico e così

il gruppo partì da Assergi (Sercio) a cavallo, per raggiungere Campo Pericoli (Campo Priviti) e poi probabilmente, almeno per un primo tratto, seguì l’attuale via normale. Pare però che Di Domenico non ricordasse il percorso che aveva detto di aver già fatto (un po’ spaccone forse?) e così la comitiva dovette cercare a lungo un passaggio, sbucando in vetta dopo cinque ore e un quarto di salita. L’impressione però li ripagò di tutte le fatiche:

Quand’io fuoi sopra la sommità, mirand’all’intorno, pareva che io fussi in aria, perche tutti gli altissimi Monti che gli sono appresso erano molto più bassi di questo.

In effetti attorno al Corno Grande il panorama spazia sull’intera regione e ben al di là. In questa parte centrale, il gruppo del Gran Sasso svetta con la sua mole dolomitica tra tutte le montagne dell’Appennino, più dolci e arrotondate. Quasi trecento metri separano la cima dalle altre appartenenti allo stesso gruppo (il Corno Piccolo 2655 e il Pizzo Intermesoli 3635).

Addunque questo monte è veramente il più alto e il più orrido di tutti i monti d’Italia perche sendo alla cima si vede il Mare Adriatico, il Ionico, et il Tirreno, et se non vi fussero tanti monti trà mezzo si vederebbe ancora il Mar Ligustico.

Oggi la salita al Corno Grande non è più

l’impresa epica delle origini e spesso, nelle domeniche estive, c’è folla sulla via. Nonostante tutto l’esperienza è magnifica.
Dal versante aquilano, attraversando in diagonale le pendici del monte Portella, il paesaggio spazia sull’altopiano di Campo Imperatore; in fondo si vede la Maiella. L’ampia prateria risale dal nostro lato fino ai 2200 del punto di partenza dell’escursione. Sotto il sentiero il paesaggio è carsico, crepe di pietra bianca intagliano i prati sui quali una mandria di mucche pascola in abile equilibrio.
Il sentiero sale sulla sella di monte Aquila sbucando sull’anfiteatro di Campo Pericoli che appare come un gigantesco imbuto verso la val Maone. Sotto le pendici del Corno è il rifugio Garibaldi. Il più vecchio dei rifugi del Gran Sasso funziona dal 1886, ma la sua posizione fa sì che d’inverno è facilmente sepolto dalla neve. Fu per questo che si costruì, sulla cresta del Portella, il Duca degli Abruzzi.
La via normale, attraversando come un’iperbole il lato orientale del Campo, si inerpica su un grande brecciaio, salendo fino alla sella omonima. Siamo a circa 2500 metri, la spalla del monte è un luogo di sosta, dove riprendere fiato.
Il sentiero continua a salire, aggirando la montagna verso nord; davanti a noi, con una lunga diagonale, si inerpica, tra le ghiaie fino alla cresta che protegge il ghiacciaio del Calderone.

Le rocce attorno al ghiacciaio del Calderone

Le rocce attorno al ghiacciaio del Calderone

Le crode e le guglie trasformano l’Appennino

in un angolo di Dolomiti scivolato a sud. Ritroviamo le impressioni di De Marchi: il punto di vista di eleva nettamente, l’orizzonte si allarga all’infinito verso un mare Adriatico che si vede chiaramente e un Tirreno che si intuisce.
Il calcare delle rocce brilla al sole e quasi si confonde con le ultime chiazze di neve.
Verso nord, la cresta del Corno Grande racchiude, come in uno scrigno, il ghiacciaio del Calderone. Si continua a chiamarlo così, anche se ormai è stato declassato a semplice nevaio. Una scomparsa più o meno lenta, secondo le annate, ma che sembra irreversibile. Il ghiacciaio più meridionale d’Europa aveva sottratto questo «titolo» nel XX secolo al Corral del Veleta, nella Sierra Nevada, in Spagna, quando quest’ultimo si era estinto. Ormai sembra seguirlo sulla stessa via.
De Marchi lo cita nella sua relazione:

Tutti quelli che non sono stati alla cima dicano che vi è una Fontana in cima. Dico che non vi è Fontana nessuna, ma che vi è bene un gran vallone tra il Monte di Santo Niccola et il Corno Monte, dove sempre vi è la nieve alta quindeci o venti piedi, e più in alcun luocho dove la nieve e ghiaccio sta perpetuamente.

Le belle pareti del versante nord del Corno piccolo sono ancora nell’ombra. Si continua a salire, su rocce più solide, verso la cima. Il panorama è grandioso, il sole colora di riflessi dorati le guglie del monte. Il cielo è di cobalto.
Un gracchio vola in cerchio lasciandosi portare dal vento.

La vetta occidentale del Corno grande del Gran Sasso d'Italia

La vetta occidentale del Corno grande del Gran Sasso d’Italia

Camosci sul massiccio del Gran Sasso

Camosci sul massiccio del Gran Sasso

Giuseppe Mucciante autore del post

Giuseppe Mucciante | Insegnante nelle scuole medie francesi, appassionato di montagna, abito in una regione che ha il suo culmine a 150 metri di altezza. Vivo a Hellemmes (F).

1 commento/i dai lettori

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  1. Lorenzo Filipaz
    Lorenzo Filipaz il30 settembre 2013

    Molto interessante la figura di Francesco De Marchi, veramente un alieno nella sua epoca… oppure chissà quale tradizione alpinistica e speleologica ha allignato nell’avanzato ‘500 umanista, di cui magari non conserviamo memoria per mancanza di relazioni documentali! In qualunque caso emerge l’importanza del “récit d’ascension” come momento fondamentale dell’esperienza alpinistica: non basta salire una vetta, non basta scenderla, occorre raccontarne per concluderne il cerchio e inserirla nel patrimonio dell’umanità. Il resoconto di De Marchi è ancor più sorpredente per il suo sforzarsi di descrivere qualcosa di assolutamente nuovo e senza paragoni – si suppone – per un uomo della sua epoca!

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