Valli di Lanzo, verso il canale d'Arnas (ph. Marco Favero)

Valli di Lanzo, verso il canale d’Arnas (ph. Marco Favero)

Premessa: se siete scialpinisti di lungo corso, questo post non vi dirà niente, se sciate solo in pista, non vi dirà niente lo stesso.
Quindi insomma, non so per chi l’ho scritto, ma ormai l’ho scritto.

Ho imparato a sciare su un campo da golf quando avevo cinque anni. Negli anni Settanta, quando la neve a Natale era una certezza anche 600 metri d’altitudine, papà mi portava sui collinozzi innevati del green di Gignese, tra betulle e giovani faggi, trascinandomi per le racchette e gridando a gran voce “skiliift!”.
Papà non ha mai sciato in vita sua, nemmeno da giovane, però conosceva bene la teoria dello spazzaneve: “Tieni il busto a valle, porta il peso a destra, porta il peso a sinistra”. Correva davanti a me con i doposci di camoscio e disegnava le traiettorie.
Dopo avermi trasmesso i rudimenti della frenata a cristiania, decise che era tempo di affidarmi ai maestri del sci del Mottarone. Non credeva alle lezioni collettive, o forse aveva semplicemente capito che ero troppo imbranata. Ebbi quindi un maestro a disposizione per un numero imprecisato di lezioni e alla fine avevo più o meno “imparato a sciare”.
Come per tanti milanesi della mia generazione, lo sci fu la porta d’ingresso alle terre alte: levate all’alba, sbadigli in autostrada, sciate fino alla chiusura degli impianti, cioccolata calda e coda all’ora del rientro. Le montagne erano un fantastico panorama ma irrimediabilmente lontano, un orizzonte da guardare, ma sempre a debita distanza.

Sciare in pista mi ha regalato tanto divertimento, anzi, tanta felicità. Mi ha permesso di mettermi alla prova su terreni comunque protetti e credo che, onestamente, questo fosse l’unico modo in cui una come me, proveniente da una famiglia che con l’alpinismo non aveva nulla a che fare, oltre che completamente priva di intelligenza motoria e di spirito d’avventura, potesse avvicinarsi alla montagna senza venirne in qualche modo respinta.
Ci fu anche un momento particolarmente buio nella mia vita, in cui toccò avere a che fare con quella strana cosa che sono gli attacchi di panico. Non sono sicura che si guarisca mai veramente dalla paura della paura, ma se dovessi pensare al momento in cui mi sono sentita in qualche modo fuori dal guado, fu quando, tornata letteralmente in pista dopo diversi mesi in cui faticavo a uscire di casa, mi risolsi ad affrontare da sola il muro del Valgussera di Foppolo.
Ricordo farsi strada piano piano l’euforia che prende su certi terreni appena un po’ ripidi, quando il tuo corpo, gli sci, la neve e anche il cielo sembrano per qualche breve istante essere una cosa sola. Quando sai perfettamente che cosa devi fare. Alla fine del muro, sentii che in qualche modo ero tornata, anche se non avevo perfettamente chiaro da dove.

È da soli due anni che ho praticamente abbandonato le piste a favore di pelli e neve fresca. Ogni tanto mi chiedo perché abbia aspettato tanto. Di fatto, prima che lo scialpinismo si facesse spazio anche solo nella mia mente, ho salito qualche facile via normale, ho camminato lungo sentieri selvaggi, guadato torrenti a piedi nudi, fatto pochi e maldestri tentativi di arrampicata. Credo insomma di aver dovuto iniziare, anche se in maniera quasi inconscia, un percorso di apprendimento sul campo per capire che la montagna non è l’ambiente idilliaco e addomesticato in cui mi ero sempre mossa fino ad allora.
Per significare “nella natura selvaggia”, gli Americani utilizzano spesso il termine “out there”, una locuzione mirabilmente sintetica e per noi pressoché intraducibile, perché l’aggettivo “selvaggio” ha qualcosa di romantico che nel più brutale “out there” sparisce del tutto. Per molti di loro, avvantaggiati dalla frequentazione di spazi sterminati e da un rapporto più naturale con gli ambienti poco antropizzati, la natura è semplicemente “out there”, il posto dove devi saperti muovere oppure sono fatti tuoi.
Comunque, tornando al giorno in cui abbandonai le piste, il primo impatto non fu particolarmente incoraggiante: io, out there, non riuscivo a restare in piedi. Una curva, una caduta, in maniera metodica. Ma così come anni prima mi ero accanita testardamente su tutte le piste nere che mi capitavano a tiro, prima di iscrivermi a un SA1 dedicai una stagione a macinare i fuori pista a bordo pista. Con risultati discutibili. Non mi iscrissi quell’anno e nemmeno quello dopo, quando sulla facilissima cresta del monte Ziccher il mio compagno mi disse senza troppe cerimonie: “non puoi fare il corso se ti muovi così male su una cresta come questa”.
Alla fine, però, è molto difficile che io rinunci a qualcosa di cui intraveda l’importanza. Così, dopo la prima uscita al Pian dei Cavalli – il toponimo è indice della difficoltà del percorso – e dopo aver completato questo sospirato SA1, allo scialpinismo sto prendendo gusto, nonostante, o più probabilmente proprio a causa dell’immensa fatica che mi ha richiesto e mi richiede abbandonare la mia zona di comfort.

La montagna mi ha regalato tanto senza mai regalarmi nienteIl poco che riesco a fare è frutto di una testardaggine che sorprende me stessa per prima – non supportata da nessuna predisposizione – e dell’aiuto delle persone che hanno voglia di muoversi con me.
Ogni salita e ogni discesa che faccio è come se allargasse un tantino il raggio del mio “si può fare”, ma mentre scrivo queste stesse righe sento che portare tutto alla sfera motivazionale sarebbe veramente riduttivo. Alla fine penso che l’andare in montagna, che l’abbandonare le piste non abbia tanto a che fare col “portarsi a casa qualcosa” – per farne che? – ma con il lasciare qualcosa lassù.
C’è un altro termine americano che viene in auto qui ed è Mindfulness – a sua volta traduzione della parola “Sati” in lingua Pali, che significa essenzialmente consapevolezza, nel senso dell’attenzione non giudicante al qui e ora. Si tratta, credo, di essere tutt’uno con gli elementi al di fuori di noi, di diventare neve, vento, sole o ghiaccio. Si tratta di una delle pochissime occasioni che oggi ci vengono date per dimenticarsi del proprio sé più strutturato e ritrovare infine la nostra dimensione “animale”, talmente perduta da non sapere più quanto forte sia il nostro bisogno di essa.

Simonetta Radice autore del post

Simonetta Radice | Giornalista pubblicista, addetta comunicazione. Da sempre amo la montagna e tutto ciò che ha a che fare con essa. La libertà è un poco al di là delle tue paure. Vivo tra Milano e Gignese (VB) e questo è il mio blog http://estateindiana.wordpress.com/

5 commento/i dai lettori

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  1. Giorgio Madinelli
    Giorgio il10 maggio 2016

    E se la strutturazione del sé avvenisse proprio grazie alla ricerca della dimensione “animale”?

    • Massimo Bursi il10 maggio 2016

      Mi ritrovo nel commento di Giorgio – http://flashdialpinismo.wordpress.com

      • Simonetta Radice
        estateindiana il11 maggio 2016

        In effetti per certi versi è così, anche se forse parlerei di ri-trutturazione del sè. Si tratta, di fatto, di un ritorno alla dimensione per cui è stato “progettato” originariamente il nostro cervello, e cioè vivere in un ambiente a cui a un problema corrisponde una risposta immediata, qui e ora (tipo: se sto per scivolare, pianto la picca e sono completamente soddisfatto del fatto di non essere caduto). Questo tipo di azione-reazione è abbastanza lontano invece dal mondo in cui ci muoviamo ogni giorno che non tende a dare una risposta immediata alle nostre azioni (se lavoro tutti i giorni, avrò lo stipendio a fine mese, per dire). E questo scollamento è la fonte principale della nostra ansia. La ricerca della dimensione “animale”, in questo senso, ci riporta… a noi. – http://estateindiana.wordpress.com

  2. oltreorizzonte il8 maggio 2016

    Fantastica autoanalisi, divertente e allo stesso tempo intensa, grazie!!

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