L’intervista a Robert Jasper è stata raccolta da Silvia Benetollo durante il recente Kiku. International Mountain Summit (IMS) di Bressanone. Silvia insieme a Omar Gubeila, nella veste di “inviati speciali” scelti dalla giuria del Blogger Contest.2015, avevano il compito di raccontare ai lettori di altitudini l’edizione 2015 del l’IMS.
TAMARA LUNGER NON È L’UNICA ALPINISTA A PENSARE CHE L’AVVENTURA si possa trovare sulle montagne di casa. Dello stesso parere è anche Robert Jasper, alpinista estremo e secondo relatore alla serata conclusiva dell’IMS.
Robert è cresciuto nella Foresta Nera, e ha iniziato giovanissimo a scalare, principalmente nella Schlüchttal e nello Jura. Già a vent’anni aveva portato a casa più di 100 tra le vie considerate tra le più difficili delle Alpi, ma è del 1991 la sua prima grande impresa, quella che lo rende famoso: la scalata, in un solo anno, delle pareti nord dell’Eiger, del Cervino e del Grandes Jorasses.
Predilige le ascensioni in solitaria perché, dice, la solitudine in parete gli permette di scavare dentro se stesso e di conoscersi meglio. Ma le Alpi sono solo il punto di partenza per una serie di notevoli imprese su tutte le montagne del mondo, ed è proprio un viaggio attorno al mondo, e nella storia dell’alpinismo, quello che sfila sullo schermo di IMS.
IN PATAGONIA, ROBERT METTE A SEGNO QUELLA CHE PROBABILMENTE è la quarta ascensione del Cerro Standhardt, il più piccolo nel gruppo del Cerro Torre ma che presentava ancora sfide irrisolte; sempre in Patagonia, sale in stile alpino il Cerro Torre per la via Maestri in sole 16 ore e mezza, mentre nel 2005 è la volta del Cerro Murallon, dove aprirà una nuova via, Via col vento, assieme a Stefan Glowacz, che gli vale il Piolet d’Or.
Il Cerro Murallon è una cima remota e difficile, e prima della spedizione di Jasper e Glowacz era stata scalata ufficialmente una sola volta, nel 1984 da una spedizione italiana: infatti, nel 1961 gli alpinisti Jack Ewer ed Eric Shipton arrivano alla cresta sommitale pensando di aver raggiunto la cima, ma poiché si trovano in mezzo a una tempesta, non riescono nemmeno a stabilire con certezza dove si trovano. Anche Jasper e Glowacz non hanno avuto vita facile sul Cerro Murallòn. In quei momenti di difficoltà estrema, racconta Jasper, il sentimento che prevale non è l’ammirazione per i luoghi e la natura selvaggia, ma piuttosto l’istinto di sopravvivere. La bellezza del posto e dell’impresa la si vede dopo, quando tutto è concluso e può essere osservato a mente fredda e alla giusta distanza.
Mi ha colpita molto questa affermazione di Jasper, perché mi sono sempre chiesta come vivono e quali sensazioni provano questi atleti che si trovano, per loro scelta, ad affrontare condizioni estreme, spesso ai limiti della sopravvivenza. E mi sono resa conto con stupore che si tratta della stessa sensazione che spesso mi sono trovata a vivere anche io, nel mio piccolissimo, durante certe escursioni in Dolomiti per me lunghe ed estenuanti, che non riuscivo ad apprezzare quando ero immersa fino al collo nella fatica e nelle difficoltà, e che poi invece ho amato tantissimo. Fatte le dovute proporzioni, e considerando sempre le caratteristiche personali di ognuno, sottoposti allo stress e ai pericoli un alpinista estremo e una semplice escursionista vivono sensazioni simili. E questa cosa è stata per me davvero un’epifania.
IN HIMALAYA JASPER HA MENO FORTUNA: pur raggiungendo ottimi risultati, le spedizioni nel Gharwal Himalayas e sul Nuptse 1 devono essere interrotte a causa del maltempo e del vento forte, lo stesso che nel 1997 si è portato via dalla cima del Nuptse 1 lo sloveno Janez Jeglič.
MA PROBABILMENTE È L’EIGER AD ATTIRARLO DI PIÙ, la montagna che gli offre l’avventura appena fuori della porta di casa e che gli permette di confrontarsi con le grandi spedizioni del passato. Anzi, la famosa Nordwand sembra essere un’ossessione per la famiglia Jasper, dato che anche la moglie Daniela su questa parete ha aperto ben 4 vie. Assieme sull’Eiger Robert e Daniela aprono una delle vie più difficili delle Alpi, Symphonie de Liberté: mille metri di sviluppo, roccia ghiacciata, temperature invernali anche in piena estate, frequenti cadute di massi. Sono proprio queste le peculiarità che fanno della Nordwand una delle pareti più difficili e allo stesso tempo più affascinanti per gli scalatori di tutto il mondo: l’esposizione fa sì che la neve e il ghiaccio siano da mettere in conto anche nei mesi più caldi, salvo poi trasformarsi in cascate nelle ore centrali del giorno, e le frane costituiscono un pericolo costante.

La parete nord dell’Eiger con la via “Heckmair” (1938, fucsia); la “Direttissima di John Harlin” (1966, rossa); e la “Direttissima dei giapponesi” (1969, gialla).
PROPRIO QUESTI FATTORI, UNITI AL MALTEMPO, determinarono il fallimento delle prime spedizioni sull’Eiger. Vale la pena ricordarle. Gli alpinisti Karl Mehringer e Max Sedlmeyer iniziano la scalata mercoledì 11 agosto 1934. Durante il primo giorno i due salgono velocemente sulle rocce strapiombanti alla base della Nordwand, ma dopo il primo bivacco il ritmo di salita cala paurosamente, probabilmente per la stanchezza. Le frequenti scariche di massi li costringono a bivaccare nuovamente, ma intanto il tempo peggiora. Una violenta tempesta porta neve e ghiaccio in parete, coprendo di nuvole la sorte dei due alpinisti. Vengono avvistati per l’ultima volta nella mattinata di sabato 14 agosto, dopodiché su di loro cala definitivamente il sipario. I corpi vengono portati giù dalle valanghe, e verranno recuperati molto dopo dalle squadre di ricerca.
La seconda spedizione, nel 1936, non fu molto più fortunata. Era composta da due esperti alpinisti bavaresi, Toni Kurz e Andreas Hinterstoisser, che avevano preparato la salita della Nordwand scalando la parete nord della Cima Grande di Lavaredo, e gli austriaci Willy Angerer e Edi Rainer, molto meno qualificati per affrontare un’impresa del genere. Partirono il 18 luglio, alle 2 del mattino, riuscendo quel giorno a salire metà della parete. Ma la notte successiva il tempo cambiò repentinamente e di nuovo la nebbia nascose la vista degli alpinisti agli osservatori appostati a Kleine Scheidegg. Passò un’altra notte. Ciò che accadde nel terzo giorno di scalata non è mai stato chiarito: gli alpinisti dapprima avanzarono lentamente, poi si fermarono, e alle 5 del pomeriggio furono visti scendere, portando un ferito. Bivaccarono nuovamente in parete. Il giorno dopo, verso mezzogiorno, un addetto alla ferrovia dello Jungfraujoch si sporse dallo Stollenloch, e sentendo che gli alpinisti si stavano avvicinando rientrò per preparare del tè. Due ore dopo, non vedendoli arrivare, andò nuovamente a controllare: questa volta quello che sentì furono grida di sofferenza. Telefonò quindi alla stazione Eigergletscher, dove venne approntata una squadra di soccorso. Gli alpinisti vennero raggiunti il giorno successivo, ma a quel punto l’unico rimasto vivo era Toni Kurz: Rainer era morto assiderato, Hinterstoisser era caduto sulla traversata che poi avrebbe portato il suo nome, e Angerer pendeva strangolato dalla corda. Dopo 6 ore passate a cercare di liberare le corde per calarsi giù verso i soccorritori, proprio quando era sul punto di compiere un’impresa epica, Toni Kurz reclina la testa, apre le braccia e muore, schiantato dalla fatica.
La parete nord dell’Eiger rimane inviolata fino al 1938, quando due cordate, una tedesca e una austriaca si trovarono in parete e decisero di mettere insieme le forze. Tra loro c’era Heinrich Harrer, divenuto poi noto per le sua permanenza in Tibet.
Da allora la Nordwand è stata scalata numerose volte e diverse sono le vie che conducono alla cima. Una di queste è la cosiddetta Direttissima dei giapponesi, che sale diritta e senza esitazioni verso la cima. Fu aperta in 5 giorni nel 1969 da una spedizione giapponese (Hirofumi Amano, Takio Kato, Yasuo Kato, Susumu Kubo, Satoru Negishi e la dottoressa ventisettenne Michiko Imai). La salita fu concepita come un test per l’equipaggiamento, in previsione di una spedizione nel Karakorum, e all’epoca fu molto criticata per via dei 1300 metri di corda e dei 250 chiodi a pressione lasciati in parete. La spedizione porto con sé durante la scalata ben 1000 kg di materiale. Tuttavia, la determinazione e l’abnegazione dimostrata dai giapponesi durante cinque giorni di scalata in condizioni avverse suscitò l’ammirazione generale. Tra l’altro, a giudicare dalle foto che si sono scattati in parete, in un bivacco precario e in mezzo alla tormenta, sembra proprio che si siano parecchio divertiti.
Questa è la via che Robert Jasper e Roger Schäli hanno deciso di ripetere ‘redpoint’. Hanno atteso il momento giusto, senza farsi prendere dall’entusiasmo, scegliendo con cura il periodo in cui sono meno frequenti le cadute di massi e più improbabile il maltempo. E in tre giorni portano a termine la loro missione. Dice Robert: “Ho imparato ad aspettare la giornata giusta, il momento giusto, il partner giusto: solo in simili condizioni ed equipaggiati dell’indispensabile, è possibile spostare il limite dal possibile all’impossibile.”
ANCHE ROBERT JASPER, COME TAMARA LUNGER, ha la capacità di concretizzare i propri sogni. Il termine che più spesso utilizza durante la serata conclusiva di IMS è ‘emotional’. Non c’è dubbio che, nell’attività alpinistica di Jasper non sia solo la prestazione, la performance atletica ad essere al centro dell’attenzione; il fattore emotivo ha infatti un ruolo importantissimo. Dopo svariate imprese su montagne extraeuropee, Jasper è convinto che le Alpi possano dare ancora molto in termini di avventura. E stando all’emozione che trasmette al pubblico durante la sua conferenza, non possiamo che essere d’accordo con lui.
1 commento/i dai lettori
Partecipa alla discussionePingback: Robert Jasper ‹ BANFF 22 Dic, 2015
[…] Robert Jasper di Silvia Benetollo (per gentile concessione di altitudini.it) […] http://www.banff.it/robert-jasper/