Si può piangere per il crollo di una montagna?
Forse non sarebbe nemmeno giusto farlo, tenuto conto delle infinite tragedie che ogni giorno accadono in giro per il mondo e pure mietono innumerevoli vite umane, ma una montagna non è solo un cumulo di sassi o un grande ammasso di roccia, a volte può essere molto di più dal punto di vista estetico, per l’importanza alpinistica, per la storia delle imprese e degli uomini che l’hanno scalata o forse anche perché è l’icona di un’intera valle, il simbolo di una vasta area Dolomitica.
Dunque, anche se non fosse giusto, non di meno il cuore alpinistico di molti appassionati piange calde lacrime e questa è la cronaca di un evento e del conseguente dolore di molti.
“E’ crollato lo spigolo della Su Alto dove va su la Piussi”.
Sono le 17:05 di sabato 16 novembre quando arriva l’sms di mia cugina Marisa Tibola che mi trova a Belluno, fermo al distributore per il pieno di gas per l’immancabile fine settimana tra le Dolomiti. “Dev’essere una cosa grave”, penso tra me e me e le telefono subito per sentirmi raccontare che è successo da poche ore e che osservando la parete dalla piazza di San Tomaso hanno potuto vedere che il grande spigolo prominente della Su Alto, la torre di mezzo della mitica “triade”, non c’è più, crollato completamente.
Poi le voci sono corse in una specie di tam tam che coinvolge emotivamente quelli che amano la montagna, condividono la passione per l’alpinismo e conoscono bene l’importanza di quella che, non a caso, è stata chiamata la parete delle pareti, ovvero la nord-ovest della Civetta, di cui la “triade”, formata dalle cime De Gasperi, Su Alto e Terranova, costituisce un’architettura perfetta che ha stimolato le fantasie di intere generazioni di scalatori.
Il giorno dopo, durante la ciaspolata con gli amici, ho avuto modo di osservare la nord-ovest dalla cima di Col Galina, al Passo Falzarego e, nonostante la lontananza, appariva ben visibile la strisciata grigia che scende da poco sotto la cima della Su Alto fin giù in Val Civetta a macchiare di grigio il bianco della neve caduta solo due giorni prima a imbiancare le pareti.
Penso, e mi auguro, che il polverone che ha smosso la frana abbia “macchiato” il biancore della neve scivolando a valle e il crollo risulti quindi limitato ma già in tarda serata, al rientro a casa, i miei ottimistici auspici vengono cancellati da una foto che trovo in posta elettronica; a inviarmela è Claudio Prà un amico di Alleghe, conosciuto su cima Loschiesuoi due estati fa.
“Ti allego due mie foto (prima e dopo l’evento) che evidenziano bene l’area interessata dal crollo sulla Cima Su Alto (Civetta). La frana è davvero consistente. In pratica è crollato quasi tutto lo spigolo.” – mi scrive Claudio e la realtà del crollo appare in (quasi) tutta la sua evidenza; il “quasi” è dovuto alla sagoma del Col Rean che copre la visuale, per chi osserva da Alleghe, da metà parete fino alla sua base.
La mattina di lunedì cerco in rete e trovo la notizia.
La trovo su montagna.tv, accompagnata da alcune foto fornite dal soccorso alpino veneto i cui volontari dichiarano: “È venuta giù una porzione importante di montagna, tra l’altro di pregio dal punto di vista alpinistico, con vie molto conosciute che sono sparite, come la via Livanos-Gabriel, la via Piussi-Molin-Anghileri”.
Ecco dunque il mosaico che si compone e si comincia a comprende che il crollo è andato a cancellare importanti pagine di storia dell’alpinismo dolomitico.
La Livanos-Gabriel è (ma adesso bisogna dire “era”) una via aperta il 10, 11 e 12 settembre del 1951 e considerata via di “riferimento” di un preciso periodo storico di cui è stato scritto “…preme sottolineare il perfetto equilibrio che con questa salita si creò tra libera e artificiale. Dopo di essa vennero le esagerazioni” [Alessandro Gogna – Sentieri Verticali].
L’altra fu aperta sedici anni dopo da due cordate di fortissimi alpinisti, Ignazio Piussi con Alziro Molin e Aldo Anghileri con Ernesto Panzeri e Guerrino Cariboni, dal 15 al 18 agosto del 1967 e definita “Via estremamente impegnativa. Una delle più grandi imprese alpinistiche realizzate nel gruppo del Civetta” [Oscar Kelemina – Guida del Civetta].
Ha scritto Alessandro Gogna su Sentieri Verticali: “Lo spigolo è una delle più belle strutture dolomitiche. L’arditezza delle linee è incomparabile, il binario unico su cui si deve svolgere la scalata ha pochi riscontri nelle Alpi intere. La bellezza di questo profilo giallo e grigio perdona l’uso di 22 chiodi a pressione piantati su una muraglia di compattissima roccia grigia”.
Ebbene, tutto questo oggi non c’è più, me ne sono tristemente reso conto la sera di lunedì quando Marisa mi ha inviato le fotografie che era andata apposta a scattare dalle pendici del Sasso Bianco, spinta dal suo amore per il Civetta e dalla curiosità di capire cosa fosse veramente successo. La realtà superava, e di molto, la più pessimistica delle aspettative.
Le foto documentano in maniera brutale l’autentico sfregio/spregio che la frana ha prodotto sulla Su Alto. Il pilastro è crollato completamente portando con sé la via Piussi-Anghileri, mentre la via del gran diedro Livanos-Gabriel è in gran parte cancellata perchè non c’è più lo spigolo che lo delineava e soprattutto lo “esaltava”.
Se anche ne sono rimasti i tiri finali ne è scomparsa l’estetica, ne è stato cancellato lo spirito e la stessa cima Su Alto è stata letteralmente brutalizzata.
Se l’immagine scattata la domenica, con il sole, attenua leggermente l’effetto visivo, quella del lunedì mattina, con il cattivo tempo, dipinge tutta la spettralità della grande ferita.
Sono andato la sera di lunedì a casa del mio amico Michele Scuccimarra.
Volevo mostrargli le fotografie di Marisa, proprio a lui che assieme a Paolo Gorini, un altro innamorato del Civetta, ha salito, unici ferraresi, la via del gran diedro della cima Su Alto nel 2008 (1). Era davanti al computer a cercare in rete le foto del crollo e alla vista delle immagini è rimasto impietrito.
“E’ venuto giù tutto – diceva sconsolato – perfino la grotta del bivacco”.
Proprio guardando una sua foto scattata da sotto durante la salita abbiamo potuto osservare meglio l’enorme pilastro dello spigolo nord-ovest della Su Alto, quella lunga linea di frattura che dava origine e dirittura alla via Livanos ma anche sembrava definire una sorta di separazione tra il pilastro stesso e il resto della parete. E come non notare la forma del pilastro farsi appuntita verso il basso e incunearsi sullo zoccolo quasi a chiedere aiuto nel sostenere l’enorme peso di quella massa prominente di roccia? Noi non siamo geologi per formulare ipotesi attendibili, pare però che proprio sotto sia iniziato il cedimento e così l’intero pilastro è precipitato verso il basso tranciando di netto lo zoccolo basale, come fosse stato un’enorme ghigliottina.
Di quella parte di zoccolo che forse dava sostegno al pilastro non è rimasto che rocce bianche, solcate da profonde gole che danno l’idea della violenza subita in quel tremendo crollo.
Un ultimo ricordo giovanile per evocare ciò di cui oggi non rimane traccia.
Se c’era qualcosa del Civetta che si vedeva bene da Pecol di San Tomaso era la “Triade”.
Credo sia stato lo zio Mario ad insegnarmi i nomi di quelle cime: a sinistra la De Gasperi, in mezzo la Su Alto, a destra la Terranova.
Quando ero piccolo credevo fossero quelle le cime più alte del Civetta, poi crebbi e imparai cos’era la prospettiva, ma ciò non cambiò la mia considerazione per la Triade perché dalla visuale di Pecol, sembrava incombere, presenza “estetica” e dominante, sfondo alto e lontano delle mie estati adolescenziali. Delle tre mi piaceva maggiormente la Su Alto, ma solamente per via del nome che mi aveva suggestionato, ancora ragazzino. Successivamente mi piacque anche esteticamente ed era proprio per quel suo cangiare di colore che ad ogni tramonto si rinnovava, soprattutto nelle sere di enrosadira.
Cosa fosse un “diedro” ancora non lo sapevo, ma avevo imparato che quel cambiare di colori che sembrava dividere la cima Su Alto in due parti, da sopra lo zoccolo fino alla cima con una grande ininterrotta “sfessa”, era originato da quelle due pareti che si incontravano ad angolo e a sera riverberavano diversamente la luce solare verso il tramonto, creando una magia.
E pare di risentire la voce della zia Armida chiamare dalla stua, nelle sere di enrosadira: “Còri, Gabri, vèn a vède che bel che l’é el Zuìta stasera!”
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(1) Un bel racconto di Gabriele Villa sulla ripetizione della via dei francesi Georges Livanos – Robert Gabriel è pubblicato su Intraigiarùn
5 commento/i dai lettori
Partecipa alla discussioneBravo Gabriele.
Grazie Gabriele per questo tuo contributo. La prima immagine è impressionante!
Molto interessante l’articolo di Gabriele.
E’ vero è la natura che cambia e forse si apriranno nuove pareti per i nostri figli o nipoti… speriamo che siano solide.
Mi sembra che stia avvenendo come nelle palestre indoor dove ti cambiano le prese per crearti una nuova via. C’è però una piccola differenza… nelle palestre mettono un cartello di manutenzione in corso e qui invece, nelle montagne, smontano tutto senza avvertirti! Se ti trovi sotto entri per sempre a far parte della dolomia come i fossili di mare e le conchigliette di cui sono cosparse le nostre Dolomiti.
Io voglio vivere ed è ancora presto per fossilizzarmi!
Molto bello l’articolo. Rivolto ad una cerchia di iniziati, non c’è bisogno di chiedersi se è giusto o no! è giustissimo! sarebbe come chiedersi se è giusto amare il /la proprio/a compagno/a.
Ma, nonostante il coinvolgimento personale, non è da essere tristi: è la natura! anche per questo la amiamo. Alcuni sviluppi sono ciclici (le stagioni) altri perenni (i crolli), ma nelle misura in cui non sono dovuti all’azione sconsiderata dell’uomo, sono da accettare. E poi tra qualche anno, ci saranno dei giovani che andranno ad aprire una nuova via, sulle vestigia del crollo di cui avranno lontanamente sentito parlare, e posteranno un twitt: roccia splendida e compatta! e sarà un nuovo ciclo…
Naturalmente ci poniamo tutti la stessa domanda: quanto piu’ frequenti sono, di recente, questi crolli? Certo che i ghiaioni che tutti conosciamo sono il risultato di crolli precedenti, ma non credo di essere la sola a provare spavento per la frequenza con cui succede. Ne ho sentiti di + negli ultimi dieci anni che nei 40 precedenti. Vorrei che qualche geologo / ente che osserva e registra questo tipo di fenomeni, ci desse una risposta.
Gabriele, molto bello e sentito il tuo articolo. Ho spesso cercato di spiegare, anche con il mio lavoro pittorico, come si possa voler bene alle montagne, alle loro forme. Nel tuo articolo si sente il lutto che stai vivendo. Lutto condiviso da tutta la comunità’ di chi ama la montagna e il Civetta in particolare.