BUON NATALE! Max, Luca e Cory sulla cumbre del Cerro Torre (3100 m) il 25/12/2012 (ph. M. Fisher)

BUON NATALE! Max, Luca e Cory sulla cumbre del Cerro Torre (3100 m) il 25/12/2012 (ph. M. Fisher)

Da dove iniziamo? La Patagonia certo.
Cos’era per me la Patagonia prima di partire?

La Patagonia era quella descritta da Chatwin nel suo memorabile libro (In Patagonia, titolo poco fantasioso), anzi, prima di tutto era quella di cui parlava Sepulveda in un altro memorabile libretto (Patagonia Express, ancora…) che avevo trovato in giro per casa quando ero piccolo.
Entrambe le fonti, quella del cileno prima, del gringo poi, mi trasmisero la ferma convinzione che la Patagonia fosse il luogo perfetto per scappare, fossi tu un bandito da “assalto al treno postale” (vedi Butch Cassidy e Sundance Kid), un anarchico perseguitato, un criminale nazista o, come si vedrà poi, un frustrato operaio gringo metalmeccanico; in quei luoghi c’era posto per tutti.
E’ proprio questo il punto. Anche oggi, ma fino a pochissimo tempo fa in misura di molto amplificata, gli spazi della Patagonia erano troppo estesi per conformarsi agli occidentalissimi concetti di “confine” e “stato”.

E’ stata probabilmente la copresenza dei due Stati “antagonisti” Argentina e Cile ad aver velocizzato l’esplorazione, l’apposizione di paletti per spiegare: io sto di qua, tu di là. Avveniva quel singolare processo, analogo a quello nord-americano, nel quale chi primo arrivava, diventava padrone della terra; così successe che, non senza litigi e guerricciole, si spartirono le terre ragionevolmente quasi abitabili.
Ushuaia, (la punta!) la toccarono prima gli argentini che ivi costruirono, per ricordare a tutti che quel posto assurdo era loro, un carcere.

Ma poi arrivò la più scabrosa questione della spartizione di montagne e ghiacciai. E qui finalmente entro in scena anch’io, tant’è che per raggiungere il Cerro Torre, nel secondo giorno di cammino, valicato il Passo Marconi a ormai venticinque chilometri dalla strada carrozzabile più vicina, si entra nel cilenissimo ghiacciaio dello Hielo Continental. Attenendosi alle leggi, per attraversare i dieci chilometri necessari per raggiungere il Circulo de los Altares e poi il Filo Rosso, serve fornirsi alla sede della Gendarmeria de El Chalten dell’apposito timbro da apporre sul passaporto che indica che si lascia il territorio argentino e si entra in quello cileno. Io e gli altri scherzavamo con irrispettosa ironia sul fatto di poter trovare immobile, ritto in mezzo al ghiaccio dello Hielo il gendarme (cileno!) che ci chiedeva il documento per poter proseguire.

Voi da fuori ridete di queste loro piccole beghe con superiorità (piccole per modo di dire in ballo c’erano migliaia di chilometri quadrati di neve, funghi, creste, rocce), ma nel ghiacciaio si potrebbe trovare chissà… il petrolio!
Ma insomma, entriamo nel vivo del racconto e parliamo un po’ di arrampicate e di quelle cose lì, tanto più che io dell’Argentina oltre che El Chalten e il gruppo montuoso del Fitz Roy-Torre ho visto solamente gli aeroporti di El Calafate e di Buenos Aires, non ho nessun diritto quindi di dilungarmi in speculazioni politiche.

La mensa comune con Domen, Lucia e Daniele (ph. L. Vallata)

La mensa comune con Domen, Lucia e Daniele (ph. L. Vallata)

Scappare si diceva

Arrivo solo soletto all’aeroporto di El Calafate dopo le necessarie sedici ore di volo è il primo dicembre, di lì tre ore di autobus mi portano al villaggio di El Chalten.
El Chalten è un isola assurda in mezzo alla prateria; sviluppatasi a partire dalla metà degli anni ottanta, ha come unica ragione di esistenza, la vicinanza al massiccio Fitz Roy-Torre, è abitata da alpinisti, trekkers, lavoratori stagionali e da qualche coraggioso stanziale, le sue strade hanno i nomi di esploratori e scalatori del passato.
A El Chalten gli alpinisti si conoscono tutti al di là della nazionalità, vuoi perché ti sei incontrato lungo una via, vuoi perché avete chiacchierato ad un asado o perché è uno famoso.

Su consiglio di Daniele, un arrampicatore genovese conosciuto sul posto, pianto la mia tenda in un coloratissimo campeggio chiamato Hostel del Lago, qui mi dedico con profitto all’attività prevalente del posto, aspettare. Aspettare cosa? La Ventana! La finestra di bel tempo.
Per un italiano è facilissimo sentirsi argentino, le due culture sono molto vicine, la lingua pure, così ho modo di fare amicizia con i ragazzi dell’ostello; gli stabili sono tutti argentini, ragazzi che frequentano l’università della montagna per diventare guide di trekking e nel frattempo svernano qui, per guadagnare qualche soldo facendo i portatori. Sono tutti molto simpatici, hanno tagli di capelli assurdi, fumano, arrampicano e ovviamente aspettano.

Al Hostel faccio conoscenza con i ragazzi con i quali arrampicherò successivamente: Daniele, già citato arrampicatore genovese, James, inglese di Sheffield, Cory e Max provenienti dal Canada e Chris il tedesco. Avrò modo in seguito di parlare di loro.
Ma l’ostello è popolato da ragazzi di tutte le parti del mondo, c’è Ricardo semi-alcolizzato arrampicatore brasiliano dalla personalità affascinante e rispettabilissimo scacchista (il vino che beve di solito, 10 pesos a cartone, si chiama Termidor, ma lui amichevolmente lo chiama U Terminetor), un tale irlandese che ha attraversato sotto i nostri occhi attoniti, nudo, a nuoto l’impetuoso Rio de Las Vueltas, c’è la ragazza noruega di James, poi francesi, giapponesi, israeliani…

E’ importantissimo entrare nello stato mentale locale per poter resistere all’attesa, non bisogna aver fretta, forzare le cose. Se il tempo è brutto e la disperazione si avvicina, trovare qualcosa da fare per passare il tempo è l’esigenza fondamentale: si può fare boulder o scalare nelle falesie attorno al villaggio se il tempo è accettabile, intrecciare braccialetti, bere mate, darsi ai corsi di folklore e di tango (tutte cose che ho fatto).
Il rito quotidiano è sempre lo stesso: si esce la mattina dalla tenda quando capita, si va nella cucina comune e, mentre si mette a scaldare l’acqua del mate e si comincia a tostare il pane, si fanno caricare al computer comune le previsioni del tempo della Noaa o di Windguru, saranno quelle a decidere l’umore generale degli arrampicatori nella mattinata.
Se finalmente le previsioni danno una finestra decente a quattro giorni, e non hai dei compagni per scalare, è meglio che tu faccia presente alla comunità quali sono i tuoi obbiettivi alpinistici così che tu possa trovare un partner, oppure lui possa trovare te.

Così sono arrivate le prime due finestre, piccole e bruttine in realtà, ma sufficienti per fare conoscenza del posto. Nella prima abbiamo salito la Amy sulla Aguja Guillamet, partendo a mezzanotte dal Rio Electrico con Daniele, nella seconda, sempre con Daniele e l’allegra brigata citata prima, la un po’ più impegnativa Whillans-Chocrane sulla Aguja Poincenot, entrambe le vie nel gruppo del Fitz.
Poi una settimana di brutto tempo che sembrava non finire mai.

Cerro Torre southwest face, il tracciato (1) è la Via dei Ragni (© http://pataclimb.com)

Cerro Torre southwest face, il tracciato (1) è la Via dei Ragni (© http://pataclimb.com)

Andiamo a “fare il Torre”

Mancavano ormai dieci giorni alla fine del viaggio ed iniziò a rodermi il tragico dubbio: lasciare El Chalten e visitare un poco d’altra Argentina o restare ed aspettare ancora? Così, come gli antichi, mi recai a cercare consiglio presso l’oracolo dell’ostello, David, una vecchia gloria dell’alpinismo argentino, capelli lunghi e grigi, che si trovava a El Chalten per praticare il mestiere di guida di trekking e per occasionali arrampicate.
David mi disse fermo che era un dono che mi trovassi lì, che ero uno scalatore ed il mio dovere era restare ad aspettare la Ventana, tanto più che a Natale (?) ne arrivava sempre una.
Ascoltai riverente il consiglio del saggio David e giorno dopo giorno i meteogrammi della Noaa andarono designando una magnifica prospettiva di alta pressione e venti assenti.

La finestra che man mano si andava costruendo era davvero notevole, tre o quattro giorni di tempo perfetto. Il mio piano iniziale era salire la Exocet, una via piuttosto famosa sulla Aguja Standhardt.
Ma invece accadde che mentre mi trovavo in cucina arrivò James che mi disse:
«Io, Cory, Max e Chris il 23 partiamo per il Torre (the Fuckin’ Penis come lo chiamava lui), se vuoi venire.»
Io sobbalzo, “fare il Torre” oggi vuol dire “salire la via dei Ragni” (1), lui se ne torna in tenda, io ci penso per mezz’ora e poi decido, mi aggrego.

Come dicevo, la via per il Cerro è lunga, trentacinque chilometri da farsi a piedi, con zaini pesantissimi.
Il primo giorno si cammina fino al Passo Marconi, da dove si spalanca l’immensità del ghiacciaio dello Hielo Continental (grande poco meno del Veneto!).
Il secondo, costeggiando il Cordon Marconi, si attraversa il ghiacciaio fino a giungere al Circulo de los Altares, di lì si procede in cordata e si inizia a salire. Si affronta dapprima una sezione di misto facile, poi un pendio a sessanta gradi di ghiaccio conduce al Col della Esperanza, e infine centocinquanta metri di ghiaccio fino agli ottanta gradi portano sotto ad una strana struttura-fungo chiamata El Elmo, lì si pianta la tenda.
Il terzo giorno si ha la scalata vera e propria e la discesa fino al Circulo de los Altares.
Il quarto giorno infine, c’è l’epica maratona del ritorno a casa, ovvero gli interminabili trentacinque chilometri con autostop finale per il ritorno al Chalten.

Max sulla spalla dopo la headwall (ph. L. Vallata)

Max sulla spalla dopo la headwall (ph. L. Vallata)

Chris, James, Max e Cory

Non voglio dilungarmi in racconti di tiri, passaggi, picozzate, albe e chiodi, preferirei parlarvi tramite aneddoti della scalata e dei miei compagni di avventura.
Chris il tedesco, arrivati ad un pianoro, centocinquanta metri prima del Col della Esperanza, ha deciso di non proseguire con noi, non si sentiva bene e temeva di rallentarci; allora senza problemi si è scavato la sua truna nella neve e si è messo a dormire mentre noi proseguivamo. È disceso la mattina del giorno successivo con un’altra cordata che si trovava sul posto.
James “il bello”, l’inglese, è stato invece vittima di una sfortuna infinita. La notte prima della Cumbre è uscito dalla tenda ed ha vomitato, ha dovuto rinunciare quindi alla salita dell’indomani. La mattina del giorno di Natale eravamo rimasti quindi solamente in tre, il che fa assomigliare il mio racconto alla parodia tragicomica di un racconto di Bonatti.

I due canadesi che hanno raggiunto con me la cima sembravano usciti da un film western. Avevo visto con i miei occhi Max bere l’olio della scatoletta di tonno e Cory dormire in tenda nel ghiacciaio senza materassino (metteva sotto le corde srotolate) e senza sacco a pelo (indossava i vestiti degli altri e il suo piumino), dei duri insomma.
Cory era stato operaio metalmeccanico da qualche parte nell’ovest del Canada, si era licenziato ed era ormai da quattro mesi in Sud America a scalare sulle Ande e in Patagonia.
Il giorno della Cumbre vi era sulla Ragni una quantità di scalatori mai vista sul Cerro Torre (dodici cordate), tant’è che sotto il famoso ultimo tiro del fungo (hongo) si era creata una specie di coda; dal momento che il tiro era difficile e non si poteva scalare in parallelo. Ci eravamo spartiti le lunghezze della via in tre ed i tiri finali, dalla headwall in poi, spettavano a Cory.
Accadde che la cordata di baschi dietro di noi chiese a quella di due guide italiane davanti a noi di lasciare il tiro attrezzato con i loro chiodi da ghiaccio. Comunicai il fatto a Cory che non capiva lo spagnolo, il fatto lo mise di pessimo umore e si mise a dire: «this is not leading, this is not leading…». Tant’è che giunto il suo turno, la nostra macchinetta canadese, non passò neanche uno dei chiodi che trovò in loco e ma ne mise (solo tre!) dei suoi. (2)

E dopo La Cumbre cosa è successo?

In breve: doppie su abalakov dubbi, eterna camminata di ritorno, un memorabile asado organizzato da noi nel campeggio con i nostri simpaticissimi amici argentino-internazionali, i tre giorni alcolico allucinati che seguirono, il capodanno in aereo vicino ad un giapponese che russava, ma soprattutto il montare insanabile di una potente voglia di tornare.
La magia e la scaramanzia in Patagonia funzionano.
______________
note:
(1) Via dei Ragni: 600 m, 90˚ M4, Daniele Chiappa, Mario Conti, Casimiro Ferrari, Pino Negri, 13 gennaio 1974.
(2) Luca Vallata, il 25 dicembre 2012, è il sesto italiano ad aver salito la Via dei Ragni dopo i primi apritori.

Approfondimenti (click per vedere):

Luca Vallata autore del post

Luca Vallata | Da quando è nato nel 1990 è uno dei 400 abitanti di Soverzene (BL). Ha iniziato a scalare con il suo amico Riccardo all’età di 14 anni. Attualmente (2013) è uno studente di matematica squattrinato e, dal momento che nessuno gli passa l’ombra di mezza fettuccia, riesce a viaggiare mangiando poco e pagandosi le spedizioni con piccoli espedienti.

7 commento/i dai lettori

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  1. Massimo Bursi
    Massimo Bursi il9 marzo 2013

    Bello bello bello
    Fresco resoconto di come dovrebbe essere sempre l’alpinismo oggi!
    Complimenti

  2. lory il4 marzo 2013

    Sarò anche un po di parte (la tua zietta preferita )ma sei stato un GRANDE, anche se poco ci capisco di arrampicata!!! Quello che mi ha impressionato di più è che hai ballato il tango??? Propri tu??? Non ci credo,non me lo avevi detto!!! A parte gli scherzi orgogliosissima di te!!! Baci

  3. Daniela il4 marzo 2013

    Quello che penso, lo sai già… comunque complimenti per il “compito di italiano” che hai svolto in modo ineccepibile! Bravo Luca!

  4. Federico Balzan
    Fre il1 marzo 2013

    Ironico e ben scritto. Mi ricorda un articolo di qualche anno fa di Maspes in cui si descrivevano non solo le scalate patagoniche, ma anche l’ozio a El Chalten, le amicizie, le follie. Bravo.

  5. Ludo il28 febbraio 2013

    Bellissimo racconto Luca! un continuo immaginar e sognar luoghi e momenti meravigliosi! grande!.. un Natale davvero originale:)

  6. massi il27 febbraio 2013

    Grazie x aver condiviso il tuo viaggo. Ë inutie dire che ti invidio :)

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