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Alfredo ci ha fregati, ma forse meno degli altri. La Toyota Corolla che ci ha rifilato fa schifo. I finestrini sono manuali, la chiusura centralizzata è fuori uso.

Credevo che in America non esistessero macchine simili dagli anni 70, ma par che funzioni. Il motore è fiacco e la spia gialla indica che le pastiglie dei freni sono quasi finite, ma non avevamo molte alternative.

San Francisco, 14 settembre 2011 – Siamo negli Stati Uniti, però questo inizio sa di terzo mondo… che con la crisi economica siano cambiati così tanto? Spero si tratti solo di un po’ di sfortuna, amo questi luoghi e farei fatica a sopportare l’idea che si fossero trasformati in un paese di imbroglioni.
E’ ormai buio e siamo finalmente in viaggio verso il nord della California. Lo stomaco è più o meno pieno e la pancia è gonfia come dopo ogni lungo viaggio intercontinentale, gli occhi mi bruciano e dopo 48 ore desidero solo dormire. Dopo qualche ricerca troviamo un buco in un motel economico che sa di muffa. Portiamo in camera tutti i bagagli e facciamo un po’ di ordine, poi finalmente si dorme.

Smith Rock, 16 settembre 2011 – Ieri il viaggio è stato lungo e stressante, interminabili rettilinei da percorrere a velocità ridicola ed alienante, paesaggi che per poche miglia potrebbero essere anche piacevoli, ma che ripetuti all’infinito uccidono spirito e fisico. 500 miglia e siamo a Terrabone, uno splendido paesino ordinato e colorato, con steccati bianchi abitati all’interno da cavalli e mucche. L’atmosfera è limpida e la luce pulita e radente, da prati verdi si alzano pareti di roccia rossa. Siamo arrivati a Smith Rock, importante centro d’arrampicata dell’Oregon e nostra prima meta, rodaggio importante per le fessure dello Yosemite.

Smith Rock, 17 settembre 2011 – La mattina l’aria è gelida, siamo a 1200 metri e quasi 900 chilometri a nord di San Francisco. Sappiamo che il sole sarà caldo, ma per ora si sta meglio chiusi in questo bar da colazioni, americane naturalmente: hamburger con senape e patate lesse mischiate a cipolla. Inizio ideale per la mia dieta iperproteica. Il sole fa fatica ad alzarsi, anche perché infastidito da coltri di nuvole dense. Dopo tre ore usciamo dal nostro rifugio, fa ancora freddo e i pile si sono impregnati di fritto, ma ora si va a scalare. Il campeggio, come è sempre negli States, è nel posto più bello, una radura rialzata sopra un piccolo canyon dove scorre un fiume dai colori così belli da sembrar quasi finti.
Da quassù le pareti sembrano un enorme maniero protetto da un fossato, ma la cosa incredibile è che stavolta l’uomo non c’entra. Se fosse opera umana la riterrei pacchiana ma la natura, come disse Rainhard Karl, non può mai essere pacchiana.

Al campo la gente si muove lentamente e silenziosa ancora imbacuccata nei piumini, alcuni armeggiano con fornelli e pentolini, altri preparano il materiale, l’atmosfera è rilassante ed il primo sole lambisce le cime più alte, mi sento bene e non vedo l’ora di mettere le mani sulla roccia. L’inizio sarà soft.

Scendiamo il sentiero che porta alla base delle pareti con solo 10 rinvii, una corda e la macchina fotografica, il resto del materiale lo lasciamo in tenda: qualche migliaio di euro in friend ed altre “magicherie” che nessuno tocca. Persino in Yosemite, dove l’arrampicatore tipo è un poveraccio che per arrampicare non può lavorare, i sacchi con il prezioso materiale vengono lasciati ovunque ed incustoditi; fra gli scalatori da sempre esiste l’accordo che tutto si può rubare, tranne i “ferri” del mestiere.

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Il primo contatto con la parete è una placca di 5.10 spittata: appigli netti ed arrampicata elegante, ma non troppo emozionante perché simile alla nostra. Continuiamo con dei mono tiri più o meno difficili, ma una linea più lunga di fessure attira il nostro interesse. Intanto guardiamo dei locali moschettonare i primi rinvii con dei lunghi bastoni telescopici. Mi sbalordisce il fatto che climber abbastanza forti usino certi escamotage, eticamente criticabili e date le difficoltà, in relazione alle loro capacità, inutili. Fotografo Patrik con in mano una di queste lunghe canne da pesca, ci ridiamo sopra e loro stanno al gioco. «Da noi lo chiamano “il vigliacco”. Come si chiama da voi?»

Torniamo alla tenda, ora fa molto caldo e sento il piacere del sole che abbronza. Prendiamo i friend ed attacchiamo quella meravigliosa linea che nessuno faceva: 5.10c da proteggersi completamente… ora sì che siamo in America! Mani fasciate per gli incastri ed una scalata emozionante, al secondo tiro un fuori misura mi impegna abbastanza, mentre le altre filate di corda scorrono velocemente e senza problemi.

Patrik è la prima volta che affronta delle fessure così, ed anche se ha avuto i suoi problemi ne è entusiasta. Dalla cima si ammirano le sinuose anse del fiume che come il fossato di un castello proteggono le pareti. Sbagliamo la discesa e facciamo “un giro della Madonna” ma così riusciamo a capire la geografia del luogo. Passiamo sopra la “faccia della scimmia”, una eccezionale torre con la cima più grossa della base e dalla quale alcuni pazzi si lanciano con le corde.

E’ ormai sera ed una luce stupefacente rende ancora più suggestive le rocce. Degli uccelli chiari volano bassi stridendo sopra le nostre teste e all’orizzonte, in contro luce, dalle enormi pianure spuntano le sagome di grandi vulcani. Ora non fa più caldo, l’aria è secca ed incredibilmente trasparente, adesso i nostri pensieri sono esclusivamente rivolti ad un boccale di birra ed una gigantesca bistecca.

Foto gallery di Manrico Dell’Agnola

Manrico Dell'Agnola autore del post

Manrico Dell'Agnola | Alpinista con oltre un migliaio di via all’attivo, fotografo professionista, scrittore per passione, viaggiatore instancabile.

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