Hervé Gourdel_03

Noi gente di montagna proviamo un orrore particolare, uno sgomento insolito: è stato con rito d’altri tempi ucciso uno di noi.

— di Alessandro Gogna
La ragione ci dice che era un uomo come gli altri, il cuore ci agita invece come un mare in burrasca, perché sappiamo che Hervé Gourdel era uno dei nostri.
E’ urgente che la nostra civiltà si renda conto che la barbarie manifesta e concreta dell’Isis non è altro che lo specchio di ciò che noi stessi siamo stati e siamo nel più profondo del nostro inconscio collettivo. Isis rappresenta contenuti arcaici dimenticati ma ben vivi, tanto più forti quanto da noi volutamente circoscritti e seppelliti nel più profondo dentro di noi.
Potremo anche distruggere fisicamente la Jihad fino all’ultimo uomo, poi essa risorgerà sotto altra forma. Tornerà a tormentarci quella visione apocalittica che tormenta a volte i nostri sogni.
Se in qualche modo ci sentiamo fieri di appartenere all’umanità quando ci stringiamo commossi di fronte al corpo mutilato di Hervé non possiamo pensare di aver vinto. La guerra interiore continua e così pure quella di civiltà. Non ci sono amici senza nemici, e l’amore è alimentato dall’odio. Così è, anche se non ci pare. Così sarà, finché non ci parrà. Fino a che non accetteremo che anche Papa Francesco ha dentro di sé la sua parte di mostro Isis.

Non conoscevo Hervè. Non sono mai stato in Algeria. Non ho mai pensato di morire così. Fino ad oggi.

— di Mattia Bonanome
Credo che penne ben più capaci di me sapranno descrivere con parole sapienti quanto accaduto.
Credo che amici, parenti e chiunque abbia legato la propria invisibile corda alla Sua possano esprimere con maggior cognizione il valore di questa perdita. E spero comunque che occhi più grandi dei miei vedano oltre il senso mediatico di questo orrendo episodio.
Mi spiace, non riesco a confezionare un articolo, ma leggendo la storia di Hervè e guardandone le foto mi è venuto spontaneo dedicare alcuni versi alla scomparsa di un uomo che amava la montagna:

Si spense la voce dell’uomo che cantava tra i monti
ma l’alba donò nuovo fiato al ricordo
e l’eco lontano,
sospinto dal vento,
cullò per le valli incantevoli note.
Così la montagna,
che non piange nessuno,
regala nel tempo il suo abbraccio silente

a chi nella vita,
per lavoro o passione,
ne ha accarezzato amorevole il volto.
Non è mai semplice parlare o scrivere di un amico che ci ha lasciato in modo tragico o che se ne sia andato per il corso della vita.

— di Lorenzo Toja
Ammiro i sacerdoti che sanno sempre trovare una parola che ci rincuora e ci rasserena anche se non siamo credenti. Recentemente sono stato a diversi funerali e più delle prediche che ho ascoltato mi hanno colpito le parole di una ragazza che ricordava la zia, amante dei viaggi, scomparsa prematuramente.
Proverò, indegnamente, a trasmutare quelle parole: mi piace pensare per Hevrè non tanto ad un eterno riposo ma ad un eterno trekking sulle montagne che amava tanto, fotografando i luoghi magici e parlando di quelle genti di montagna che sanno sempre accoglierti con un sorriso. Vorrei ricordare e dedicare al nostro amico scomparso le parole di “Signore delle Cime” di Bepi de Marzi: “… Ma ti preghiamo su nel paradiso lascialo andare, per le tue montagne…”.

L’orrore per questa morte, stranamente mi porta il pensiero sulle migliaia di montanari che si sono scannati 100 anni fa sulle nostre Alpi.

— di Giorgio Madinelli
Tutti amavano le crode i fiori la neve. Come Hervè.
La morte di quest’ultimo ci fa rabbrividire. A me fa ribrezzo il fatto che l’umanità non sia per niente cambiata e che la pace che abbiamo nei sensi quando saliamo tra i monti è un fragile tentativo di chiamarci fuori di ignorare il brutto che ci circonda. Ora Hervè ci insegna che non siamo salvi nelle nostre oasi. Per quanto noi ci crediamo assolti siamo per sempre coinvolti (cit. De Andrè).

Da questo insanguinato, furibondo 2014 c’è da aspettarsi di tutto.
CIME DI PACE_01

— di Roberto Serafin
Figurarsi se ci meravigliamo che un alpinista venga decapitato dai macellai islamici sui monti della Cabilia, in Algeria.
Dolercene, piangere per questo fratello francese che un po’ ci rappresenta tutti nel nostro illusorio anelito per la libertà, questo lo dobbiamo fare e lo facciamo. Ma non ci illudiamo che le montagne del Mediterraneo siano delle oasi di pace visto che siamo stati tra i primi proprio noi italiani a insanguinarle quando le camicie nere minacciavano di “spezzare le reni” alla Grecia e sulle vette delle Alpi accendevano bellicosi fuochi e sparavano nei dì di festa raffiche di mitra per ammonire i transalpini.
Ma la speranza in un mondo migliore non può venire meno, altrimenti a che cosa servirebbe portare pacificamente sulle vette una croce ricavata dai barconi dei migranti, come è avvenuto in questi giorni?
E quali messaggi possono arrivare oggi dagli ambienti alpinistici? In questo 2014 sarebbe forse giusto celebrare il decennale di un piccolo, significativo evento di cui si è persa la memoria: la prima Giornata della Cima per la Pace che ebbe per teatro nel 2004 alcune vette delle Alpi.
“Stiamo lavorando”, scrisse in quell’occasione l’alpinista valtellinese Orste Forno ideatore dell’iniziativa, “per cercare di lasciare ai nostri figli e nipoti un mondo migliore. E se abbiamo scelto le cime e non le piazze è perché la montagna, da sempre luogo di introspezione e di spiritualità, può aiutarci maggiormente a trovare l’unione e la fratellanza”.
Forse è arrivato il momento di sventolare con più convinzione quella bandiera ed è bello e positivo che un apprezzato web magazine come Altitudini inviti gli alpinisti a una pacifica mobilitazione.

Non ti conoscevo. Il tuo nome mi era sconosciuto. Il tuo viso resta un frame del telegiornale che parla di storie lontane dal quotidiano.

— di Luca Chiarcos
Sentimenti aspri accompagnano la notizia della tua partenza da questo mondo.
Odio e compassione per chi uccide in nome di Dio, per chi ti ha ucciso, per chi ti ha tolto ai tuoi cari in maniera disumana. Non ho paura a dire che non posso perdonarli, Non ho paura a usare la parola odio per loro. Non ho paura a piangere pensando a chi ti conosceva. Non ho paura.
Penso a quante volte nel tuo mestiere di guida avrai detto a un cliente “non aver paura, ci sono io qui con te”.
Non ti conoscevo, ma so che sei qui, a dirci di non aver paura.

“Il diploma di guida mi ha permesso di guadagnarmi da vivere lontano dagli uffici, arrampicando, sciando, scendendo dai torrenti, parlando di montagna… trasmettendo agli altri passione e conoscenza!”.

— di Stefano Lovison
In questa frase di Hervé Gourdel , tratta dal suo sito, è spiegata con forza e semplicità il senso della libertà che Hervé per tutta la sua breve ma intensa  vita è andato cercando.
Proprio tra le montagne e nello svolgimento del suo lavoro  il cittadino francese ha trovato causa di un’orrenda morte, ma non praticando l’alpinismo, cosa per cui si era addestrato per tutta una vita, ma per mano dagli jihadisti del gruppo Jund al Khilafah affiliato all’Isis, prima rapito e poi decapitato.
Non che le morti facciano differenza, mai e soprattutto in questo modo infame, ma quella di Hervé Gourdel è una morte che ci tocca un po’ più da vicino, e tocca da vicino la comunità alpinistica.
Perché non si può semplicemente catalogare tra i fatti accidentali di queste guerre,  multimediali e globali. Ci tocca innanzitutto perché come gli altri giustiziati faceva  parte di quelle categorie di uomini (guida alpina, reporter, operatore umanitario…)  più libere e scevre da qualsiasi interesse personale.
È probabile che il disegno criminale e infame dell’Isis abbia in questo scenario proprio l’obiettivo di toccarci nelle corde più intime con manifestazioni di orrore medievale per scardinare le nostre sicurezze e farci sentire tutti degli obiettivi, prossimi e fragili. Cercare l’indignazione e il disgusto è la prima fase di una strategia a cui seguirà una inevitabile reazione a cascata cui,  si voglia o no, non riusciremo a sottrarci.
Ma questo fatto brutale ci tocca molto da vicino perché Hervé era un alpinista e tutti noi che condividiamo la sua passione, nel momento in cui sempre più spesso e non per fatti incidentali ci troviamo a transitare e ad agire in luoghi di sofferenza,  siamo non solo osservatori ma, nel bene e nel male, diventiamo protagonisti. Ricordo il sanguinoso episodio dei morti al campo base del Nanga Parbat ma soprattutto le innumerevoli e sanguinose battaglie in alta quota per il controllo di confini strategici,  territori destinati allo sfruttamento dove l’uomo della montagna, il montanaro, è più umiliato dall’indigenza che vessato dalla natura inospitale – cui peraltro è abituato a convivere da millenni – : in questi scenari l’alpinista si trova nel guado di un eterno e stridente compromesso: invadente e  ricco turista o portatore di quel senso di libertà di cui è intrisa l’esplorazione?
Non ci si sottragga quindi dal prendere coscienza di questi ruoli nel rispetto della montagna e dei suoi abitanti esercitando un turismo consapevole sia esso a ottomila metri o durante un semplice trekking  ma soprattutto sia una volta ancora  l’alpinismo una bandiera di pace costruita sulla conoscenza, la condivisione e la tolleranza.
In memoria di Hervé Pierre Gourdel, guida alpina e appassionato alpinista.

Hai sentito di quella guida? Quante volte ci scambiamo questa domanda.
Purtroppo le notizie di persone esperte che lasciano la loro vita tra le montagne non sono rare: valanghe d’inverno, crepacci d’estate.

— di Silvia Tessa
Alla domanda “Hai sentito di quella guida?” ti viene solo da chiedere “dove?” non chiedi neanche “come?”. Chiedi solo “dove?”. “In Algeria, decapitato”. Decapitato? Non può essere stata una valanga, e neanche un crepaccio. La montagna non ti decapita. I tuoi simili sì, però.
“Ma era un giornalista?!” No, non era un giornalista. E neanche un fotoreporter.
Era un turista che stava facendo una vacanza di trekking, come quelle che fai tu. Herve Pierre Gourdel, 55 anni, era una guida del Parco del Marcantour, sulle Alpi-Marittime, che stava facendo una vacanza in Algeria. Non un volontario come Arrigoni, non un giornalista come Steven. Era un turista che amava la montagna, come te. Ma la montagna algerina adesso non ama i turisti. Herve è stato rapito, usato in un video per intimare alla Francia di cessare i bombardamenti entro 48 ore. La Francia non ha interrotto i bombardamenti, ma la vita di Hervè, che è stato decapitato poco dopo. Forse sarebbe stato decapitato comunque, ma non lo possiamo sapere.
Riposa in Pace Hervè, ti ricordiamo come un uomo che amava scoprire, insegnare e accompagnare, con il sorriso soddisfatto per essere riuscito a realizzare il proprio lavoro fuori da un ufficio, come ci ricorda tua moglie e come si legge dal tuo sito: www.hervegourdel.com
Riposa in Pace Hervè, dopo averci ricordato che siamo in guerra, che da un po’ il premio Nobel per la pace Barack Obama ha iniziato a bombardare i paesi del “Califfato” e l’Europa lo sta seguendo. Ricordaci che se siamo noi ad attaccare, non saremo al sicuro da nessuna parte, neanche sulle nostre amate montagne.

Dopo aver letto la notizia ho avuto difficoltà a capire cosa provassi. Diamine, ho avuto difficoltà anche a capire cosa fosse giusto provare.

— di Bruno Spina
In fondo Hervè Gourdel è un nome come tanti altri, il nome di una persona che non conoscevo e di cui so quel poco che si può intuire da ciò che si trova in rete, il nome di un turista, il nome di chi ha fatto una morte orribile, inspiegabile, ingiusta.
Non c’è nulla che si possa dire, scrivere o addirittura pensare sul fatto in sé, che non sia retorica vuota, inutile, perfino irrispettosa.
E che cosa aggiungere su questi gruppi terroristici, sulle guerre, i conflitti, le morti atroci, i cosiddetti danni collaterali, la fame e la miseria che ne consegue, che non divenga una scopiazzatura indegna di ciò che viene scritto sui giornali e raccontato dagli inviati speciali?
Mi viene in mente, mentre scrivo, solo l’episodio, diverso e distante, nel tempo e nello spazio, dell’attentato al campo base del Nanga Parbat. E più ci penso e più mi rendo conto di quanto, invece, siano simili.
Quest’uomo assassinato, turista, montanaro, guida alpina, sicuramente profondo conoscitore di luoghi in cui si focalizzano le paure delle persone, ha dovuto affrontare e soccombere a qualcosa che è incomprensibile se non arrendendosi alle bieche e amorali regole che questo mondo del duemila ci sta imponendo.
Spesso guardo chi vive così intensamente la montagna e ammiro il loro coraggio, la loro freddezza e determinazione, la capacità di leggere la natura, gli eventi, i pericoli, e magari, solo magari però, decidere di affrontarli di buttarvisi contro e cercare di uscirne il più indenni possibile.
Quest’uomo di cinquantacinque anni stava conducendo un trekking, stava esplorando una regione del mondo per lui sconosciuta, nuova, meravigliosa in cui condurre familiari e clienti. Aveva con sé un grande bagaglio di conoscenze, esperienza di montagna e quindi, per forza di cose, di vita vissuta a contatto con il pericolo, con le proprie paure e timori, in un confronto con le proprie insicurezze.
Eppure ha trovato qualcosa che tutta la sua esperienza, in Alpi, Himalaya, e chissà quante altre catene e gruppi montuosi, non lo aveva preparato ad affrontare.
Non c’è nulla che la montagna, per quanto possano essere insidiose e subdole le condizioni, per quanto possano essere alte le difficoltà tecniche, per quanto grandi possano divenire le incertezze e i dubbi, gli avrebbe potuto insegnare per affrontare ciò che ha affrontato.
Leggo le storie delle avventure e delle tragedie vissute dai grandi alpinisti che hanno fatto la storia: quello che in assoluto accomuna tutti, a prescindere da cosa, come e dove abbiano vissuto una data esperienza, è che la montagna gli ha permesso di scoprirsi più forti di quanto credessero all’inizio.
Anche di fronte ad un fallimento.
Walter Bonatti scriveva che le montagne hanno il valore dell’uomo che le scala. E credo che quel valore, ad ogni nuova e vera prova ne sia innalzato, portato ad un nuovo livello. E credo pure che quel valore, quel nuovo essere umano che torna da un’esperienza bella o brutta, positiva o negativa, inebriante o dolorosa, porti con sé qualcosa che, se saggiamente impiegato, può aiutare a vivere ed affrontare meglio la vita in basso, in pianura, in città.
Eppure non c’è nulla, nessuna scalata, nessuna via, nessuna parete che può prepararci all’odio che l’uomo stesso genera e spande e diffonde con tanta violenta generosità.
L’alpinismo e più in generale l’andar per monti, nella sua storia fatta anche di ombre, nell’esperienza di ciascuno, nei racconti di chi attraversa esperienze vere e intense, nello sguardo di chi ci vive, nel silenzio che si può cogliere solo lassù, nell’amicizia che si instaura fra due veri compagni di cordata,  insegna l’amore.
Non l’amore passionale, non quello mercificato, ma quello che ha la capacità di sorprenderci, di stupirci per una natura che sogniamo per tutta la settimana, quello che ci costa fatica, che ci mette paura. Che qualche volta arriva al sacrificio estremo. Quello vero. Perché è questo l’amore. Sofferenza, timore, stupore, gioia, felicità.
Ecco, Hervè Gourdel non poteva essere pronto a trovare l’odio in mezzo alle montagne, non poteva essere preparato. Questo è ciò che credo.
Quello che ho faticato a capire sta proprio qui: quell’odio e quell’amore non possono trovare dimora nello stesso luogo. E in fondo, almeno questo è quello che vale per me, ciò che mi ha disturbato di più, proprio come la morte di quegli alpinisti al Nanga Parbat, è l’impossibilità di mettere insieme due realtà che non possono stare assieme.
Ciò che mi ha interrogato e indignato è che quell’orrore blasfemo è avvenuto in un luogo che considero sacro. Hanno insozzato quello che per molti, per tanti che amano visceralmente le montagne, il loro silenzio, la loro austerità e la loro fredda e indomabile bellezza, è un tempio dell’amore. Un luogo, fisico o mentale, in cui ci si avvicina materialmente al mondo inconoscibile e tremendo del mistero. Talmente affascinante e talmente importante per gli uomini da divenire addirittura sacro, dove soffrire, sperare, amare, sacrificarsi.
Sono convinto, mio malgrado e nonostante sia e debba essere ottimista, che non sarà l’ultimo tempio ad essere violato e non sarà l’ultima vita ad essere immolata all’altare della violenza.
E, infine, c’è un timore, una domanda che sorge, che non riesco a far tacere.
Quando anche l’ultimo luogo incontaminato di questo mondo sarà sporcato dalla malvagità cosa ci rimarrà? Dove potremo trovare veramente rifugio, senza essere terrorizzati, senza vivere nella paura dell’odio? Senza dover odiare a nostra volta?

Se proprio doveva essere giunta l’ultima ora per Hervé Pierre Gourdel, questa volta avrei preferito leggere che “la montagna assassina” aveva voluto un’altra vittima, magari a causa di un seracco precipitato o di una scarica di sassi non prevedibile.

— di Gabriele Villa
Lui però, guida alpina francese, non stava praticando alpinismo, non stava inseguendo il “magnifico inutile”, piuttosto è stato raggiunto, preda estranea e innocente, dall’ “orribile inutile”, vittima di una guerra mai dichiarata che colpisce con barbarie vittime scelte a casaccio. Mi ha colpito la sua morte ma non tanto perché fosse “uno di noi”, come è stato sottolineato, o almeno, non solo per quello. Mi ha colpito di più la sua estraneità totale in quel contesto di terrore, la sua posizione di “turista”, non di nemico, nemmeno di giornalista, di fotoreporter, di operatore umanitario, di nessuna di quelle attività che potesse farlo ritenere in qualche modo ostile, seppur marginalmente. Mi ha colpito il filmato della sua dichiarazione forzata, della disperazione che gli si leggeva negli occhi e si sentiva nella voce quasi spezzata dalla sofferenza della morte imminente, senza motivazioni che ne potessero dare un minimo senso. In altri filmati o in foto simili, ho sempre visto negli atteggiamenti delle vittime, una qualche consapevolezza del loro essere identificati come potenziali nemici, pur se marginali. Questa volta in Hervé Pierre Gourdel era lampante la totale estraneità agli eventi, l’irragionevolezza di ciò che stava succedendo. Paradossalmente la sua “esecuzione” ha reso caricaturali i suoi carnefici, assurdi protagonisti di una brutalità senza ragione, di una ferocia senza senso proprio perché imposta a una vittima incolpevole, a un nemico che tale non era, oltretutto palesemente indifeso di fronte a “sagome” armate (non uomini) in maniera ostentatamente ridondante. Spero che il “sacrificio” di Hervé Pierre Gourdel possa aprire gli occhi a quelli che sembrano giustificare in qualche modo queste lugubri rappresentazioni di morte, diventare un primo passo verso la consapevolezza dell’insensatezza di quei rituali barbarici, soprattutto se perpetrati su vittime palesemente innocenti. Se così dovesse essere la morte di Hervé Pierre Gourdel non sarà stata inutile e allora saremo ancora più orgogliosi di poter affermare che lui era “uno di noi”.


CIME DI PACE_01

Se altri pensieri in ricordo di Hervé Pierre Gourdel vorranno aggiungersi,
la redazione di altitudini.it sarà ben lieta di accoglierli.


Redazione altitudini.it autore del post

Red. ≈altitudini.it | La redazione di altitudini.it racconta e discute di montagna e alpinismo.

4 commento/i dai lettori

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  1. Francesca il1 ottobre 2014

    Lasciamo che notizie come questa ci scivolino di dosso, storciamo i musi e poi in fondo, salvo qualche atteggiamento di disappunto, torniamo alle nostre vite continuando ad ignorare.
    Un susseguirsi di luoghi comuni . Non ci sono considerazioni più giuste o meritevoli di altre. Nessun insegnamento da trarre né nuove strategie da adottare.
    Probabilmente l’unico gesto sensato da compiere è proprio quello di andare avanti. Se non trovassi però in me alcun atteggiamento di profondo sconforto e di rabbia, se non mi fossi soffermata a scrivere nulla su questo triste episodio pur avendone avuto possibilità, beh allora sì che a vincere sarebbe stata la fredda barbarie della nostra società.
    L’età, gli ideali e la consapevolezza che ci sono persone che come Hervè Pierre Gourdel incontrano il loro destino fanno credere nella forse utopica convinzione che lottare e crederci è di obbligo assoluto. Non arrendersi alla normalità che ci vorrebbe ciechi e sordi.
    Trarre da episodi orrendi come questo fermezza per andare avanti e la cognizione che regole, al di là di quelle che piace a noi credere che non possano essere infrante, non ce ne sono.
    La nostra elaborata impalcatura di convenzioni ha come unico fondamento la consapevolezza che siamo tutti solo degli uomini. – http://www.oltreilvalico.blogspot.it

  2. Ivana Bizzotto
    Ivana il27 settembre 2014

    “Non sono meduse” era il titolo di un video postato su un social un paio di giorni fa che, inorridita, non son riscita a guardare che per qualche secondo. Decine di corpi di giovani immigrati scompostamente spiaggiati, sulla battigia di una spiaggia da sogno.
    Non meduse, cadaveri!
    Turbata, ho considerato mio malgrado di esser stata a conoscenza da lungo tempo di come il mar Mediterraneo sia cimitero per un numero incredibile di dispersi. “Abituata” alla notizia ormai troppo ricorrente, questa volta sono stata scossa in maggior misura perchè le immagini erano assai più crude, di quelle servite quasi quotidianamente ai tiggì.
    Perfino le atroci decapitazioni dell’Isis ormai occupano meno spazio della prima. Delle violenze sulle donne straziate e poi gettate sul ciglio di una strada si hanno notizie solo secondarie.
    Ecco poi, in questo crescendo dell’orrore, la notizia dall’Algeria dell’agghiacciante decapitazione della guida alpina francese e il naturale immedesimarsi della gente di montagna.
    Certo, non è possibile assuefarsi a queste atrocità, ma che fare? Accolgo l’invito di questo sito per esprimere il mio modestissimo pensiero, la mia goccia nell’ oceano, con l’auspicio che si eviti almeno che questi orrori diventino ABITUDINI.

  3. Rainaldo il27 settembre 2014

    sono costernato la violenza dell’uomo ( chiamiamolo uomo ) non ha più dignità , hanno ucciso nella maniera più vile uno di noi , la sua colpa amare così tanto la montagna, ciao amico mai conosciuto , buon viaggio e da lassù vegli su di noi ^_^ – http://www.sisteco.eu

  4. Davide Scaricabarozzi il27 settembre 2014

    Quando leggo di “comunità alpinistica” provo un senso d’appartenenza che travalica ogni retorica.
    Sebbene le diversità siano tante almeno quanti sono gli appartenenti a questa comunità resta quel fil rouge che ci consente, forse, di comprendere in qualche modo tutti sulla stessa lunghezza d’onda quel desiderio di libertà e leggerezza che tutto sommato ci accomuna.
    ….e allora questa morte ci pare ancora più inutile-

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