Ci fu un momento della sua vita, diciamo nella mezza età, in cui Gabriele si interessò ai criteri di classificazione con i quali gli uomini gestiscono la conoscenza geografica delle montagne.
In quel periodo studiò meticolosamente gli Ottomila himalayani, i Seimila peruviani, i Quattromila delle Alpi, i Tremila delle Dolomiti e della Patagonia, le Seven Summits degli altrettanti continenti, la lista delle montagne oltre i sessanta gradi di latitudine nord e sud e così via. Si interessò di statistiche, di prime salite assolute, invernali, femminili, per ciascuna nazionalità eccetera. Vide, come è ovvio, che gli uomini e le donne tendono a classificare ciò che sta loro intorno. Interpretò ciò come necessaria pratica per mettere ordine nelle cose della vita, ma in fondo prassi un po’ meschina e riduttiva, almeno nel mondo presumibilmente avventuroso e creativo dell’alpinismo.
Osservò che tuttavia non mancava un approccio diffuso, una controcultura diciamo, tesa – fin dall’inizio dell’alpinismo – a valori meno statistici e più estetici: pensava alla salita, effettuata nel 1958, di Bonatti e Mauri al Gasherbrum IV, una cima di 7.925 metri, di poco sotto alla fatidica cifra degli Ottomila quindi, soglia che in genere porta lustro e reputazione. O, prima ancora, la scelta di alcuni pionieri di scalare le pareti per la via più difficile, senza badare al raggiungimento della cima.
Talvolta però gli sembrò che l’ostentazione stessa dell’attenzione per le cime dimenticate, selvagge e disgraziate fosse diventata essa stessa un cliché, in fondo specchio della ambizione e della superbia degli alpinisti.
Gabriele non stava tuttavia scoprendo o inventando nulla di nuovo e, per quella sottile stilla di ambizione che anche gli uomini più indolenti hanno, desiderava a tutti i costi ideare, sull’argomento, una nuova visione delle cose, una qualche sorta di archetipo visionario dal quale non poter prescindere, non ancora ben definito nella sua mente.
Come nel Suiseki, arte giapponese di disporre le pietre trovate in natura per favorire la meditazione, spesso a forma di montagna in miniatura, pensò che, anziché arrovellarsi a scalare un grande numero di montagne, o all’esser schiavi delle classificazioni per concordanza o per contrasto, valeva la pena individuare quella che concentrava su di sé tutti gli archetipi possibili, e lì condurre quindi la salita della vita, l’unica possibile. Questa sarebbe stata la sua ultramontagna, forse addirittura l’ultramontagna di tutta l’umanità.
Iniziò a passare le serate con i gomiti appoggiati sul tavolo di larice del suo studio, nella piccola città ai piedi delle montagne.
Il sole di giugno calava tardi, e quando non poteva più il sole, una grossa lampada illuminava le dita posate sulle tempie in un atto di concentrazione. In quelle sere, lavorò molto sull’iconografia e sull’acquisire le nozioni basilari di geomorfologia, ma anche sulla geometria dei solidi, sulla letteratura alpinistica, sulla petrografia, sulla fisica. Il concetto-faro gli parve fin da subito quello del triangolo isoscele acutangolo. La montagna aguzza, simmetrica e perfetta, così come la disegnano, in forma stereotipata, anche i bambini. Da lì si poteva lavorare sul ruolo determinante dell’angolo di attrito statico, dipendete dalla qualità della roccia e dalla sua tessitura, nel determinare la verticalità della parete. E poi, le forme altrettanto ricorrenti come le cime bifide unite da un ventaglio a coda di rondine, i cambi di pendenza dovuti ai sovrascorrimenti di vetta, le conche di sovraescavazione dovute ai ghiacciai pensili eccetera. Più studiava e più gli archetipi aumentavano, in una frustrante sensazione di complessità in aumento, anziché di sintesi in via di rivelazione. Inoltre, Gabriele era un pigro, e pensò che forse, in fondo, una ricerca iconografica completa avrebbe richiesto troppo tempo e non si sarebbe mai arrivati ad una conclusione certa. Del resto qualche montagna remota avrebbe potuto sempre offrire nuovi spunti o, peggio, ribaltare le certezze acquisite in precedenza. Qualche scappatoia, pensò, era forse possibile.
L’ennesimo pomeriggio passato sui libri, ormai nell’aria la fine di quell’estate piovosa. Si alzò dalla sedia e guardò alla finestra, sopraffatto dalla frustrazione della sua ricerca senza sbocco. Dalla sua casa ai bordi delle Alpi vedeva una modesta cima, quella che occupava l’orizzonte dalla sua nascita, duemila metri e poco più, con una paretina sommitale percorsa qua e là da rassicuranti cenge erbose, che a cercare la difficoltà avrebbe regalato qualche passo di terzo grado al massimo, inframmezzato da tratti in cui era sufficiente camminare. La parete era poco ripida e breve e, soprattutto, il punto sommitale non culminava in un aguzzo vertice, ma in una tozza e vasta cima levigata da un antico circo glaciale. No, di certo non sarebbe andata bene per le sue ambizioni.
La Cima Rotta, quello era appunto il nome della montagna che gli si parava davanti e che sembrava una donna invecchiata ed imbruttita rispetto alle tante montagne vagheggiate, gonfie di ghiaccio bianchissimo lungo i fianchi, non poteva e mai avrebbe potuto essere un’ultramontagna, la condensazione di tutti gli archetipi verticali.
Non valeva nessuna furberia retorica sulla proporzionalità relativa rispetto alla propria esperienza personale o capacità individuale, non andava bene nemmeno addurre una scorciatoia filosofica o di serendipità, andando ad riconoscere che di qua e di là tra le pieghe, forse, si nascondevano arcani segreti che, se ben predisposti, avrebbero potuto rivelarsi. Infine, non sarebbe mai esistita nessuna condizione atmosferica – vento, neve bagnata attaccata sulla verticale eccetera – tale da erigerla ad una almeno dignitosa forma iconica. Insomma non era nient’altro che una brutta ed anonima montagna, ai margini delle Alpi, rugosa, levigata e imbolsita.
Pensava a tutto questo appoggiato coi gomiti al davanzale e fu in quel momento, d’improvviso, che la Cima Rotta, forse per le continue piogge dell’ultimo mese, che avevano saturato gli acquiferi, iniziò a inclinarsi leggermente e quindi a precipitare. Sì udì un tremendo crac che, viaggiando più lentamente rispetto alla scena, nell’aria densa, arrivò all’orecchio di Gabriele alcuni secondi dopo rispetto all’immagine della montagna che ruotava, con quel senso di irrealtà come quando si scorgono da lontano i boscaioli che battono le accette sui tronchi, e il suono non è coordinato ai loro movimenti ma si alterna al su e giù della loro figura, come in un semiperiodo di una partitura musicale, condotto in levare dalle spazzole di una batteria jazz.
Dapprima questa massa proterva sembrò un’allucinazione, ma in una frazione di secondo Gabriele si rese conto che il magnifico orrore stava accadendo davvero. Ruotando su se stessa, il basamento come perno, in pochi istanti la montagna crollava ad una velocità vertiginosa, sormontandosi in enormi spaccature.
Con un immenso boato tutta la struttura sommitale, per un’altezza di cinquecento metri di roccia almeno, andò a schiantarsi sul fondo della stretta valle, colmandola di rovina, per fortuna mantenendosi abbastanza distante dal primo paese, appeso su un costone. Era una cosa inaudita, ciclopica, mai vista, da tramandare per i prossimi secoli.
Dopo solo una decina di secondi la polvere dello schianto si levava su e ancora su per centinaia e migliaia di metri, e nel cielo estivo apparentemente indifferente, di un blu cobalto uniforme, così come proiettata nella rètina di Gabriele, identica ma immensamente rimpicciolita e capovolta dopo il chiasmo del cristallino, pareva prendesse la forma – tra pieghe, pareti e pilastri – di una gigantesca montagna inaccessibile, si sarebbe detto però per nulla aguzza e affusolata, piuttosto dalla forma tozza, gibbosa e fiacca di trapezio ottusangolo.
Crediti:
La definizione di Ultramontagna è ispirata alla quasi analoga Ultravetta del film Chiedilo a Keinwunder. Se ho ben capito il film, tuttavia, la metafora sottesa rimanda a un significato un po’ diverso rispetto a quella che vorrei intesa con questo mio racconto.
Le varie foto, rielaborate, sono predate dal web. Per chi volesse venire a prendermi per rimostranze, abito nella misteriosa città del racconto.