IMG_0862_1Riflessioni a ruota libera, su etica e aree protette.

Il 6 febbraio 2011, domenica (che la Chiesa dedica alla “Giornata per la vita”, ironia della sorte), verso le 14.00, si è sviluppato un furioso incendio che ha interessato la montagna di casa mia, quella in cui sono nato (località Pian, poco distante da Vignaga e Solferino direttamente interessate dall’incendio…), in cui abito (località Mutten ad Arson, base operativa delle operazioni di spegnimento), quella della mia tesi di laurea e del mio primo lavoro scientifico.
Proprio quest’anno, 2011, ricorre il 4° centenario dell’istituzione della parrocchia, dedicata a San Michele Arcangelo, che comprende le due comunità di Arson e Lasen, oggi ridotte a poco più di 300 residenti, ma ancora vitali. Il 2 giugno, data in cui si celebra tradizionalmente la festa presso la chiesetta, è in programma un evento straordinario, con uno speciale pellegrinaggio nell’ambito di una serie di iniziative già avviate lo scorso 29 settembre, festa patronale. Tra le iniziative anche una pubblicazione sui 400 anni di storia.
Non mancano motivi, come si può rilevare, per “aggiungere carne al fuoco” su questo sconcertante e drammatico episodio, il terzo di gravi proporzioni che ha investito quasi l’intera montagna. I precedenti, del 1976 (anno del terremoto in Friuli) e del 1990 sono stati più estesi e durati a lungo, ma allora non c’era ancora il Parco e comunque sono stati vissuti e subiti con “minori preoccupazioni”. La velocità con il quale si è propagato domenica sera e il denso fumo (che si avverte ancora in gola) favorito da condizioni meteo di alta pressione che schiacciavano l’aria verso il basso, hanno certo creato momenti di “allarme”.

Le cronache e i video, le interviste, i blog hanno analizzato fin nei dettagli la situazione. Non sta a me ripetere quanto già noto, ma l’occasione è preziosa per cogliere, a ruota libera, pensieri, emozioni, riflessioni su un evento che deve contribuire a far crescere una coscienza più responsabile, da cittadini del mondo, salvando l’identità locale, ma aprendosi a processi partecipativi. In questi giorni, ad esempio, le drammatiche vicende in nord Africa, ci stanno insegnando la forza, pacifica, che può scaturire da simili processi.

Molte domande si sono susseguite in questi giorni, in cui si è constatato che gli investimenti di decenni per acquisire una matura coscienza ambientale fossero andati “in fumo”. Non si pretende di fornire risposte moralistiche ed esaustive, ma di lasciare dei semi capaci di germinare per assicurare un futuro sostenibile e, perché no, migliore per le prossime generazioni.

1) Le cause, tra colpe e dolo
Esclusa qualsiasi ipotesi di autocombustione, speculare ora tra colpa e dolo, pure essendo determinante a livello giuridico e penale, è del tutto marginale (cosa fatta capo ha). Che esistano persone poco equilibrate può essere una triste realtà, confermata dalle cronache quotidiane. In tal caso, per limitare i danni, serve una cultura della prevenzione e non dell’emergenza. Stiamo andando in questa direzione (vedasi anche il dissesto idrogeologico) o in quella opposta? Interessi diretti per azioni dolose sono da scartare (non si tratta di aree ambite per nuove edificazioni…), a meno di mitomani, nel qual caso si ricadrebbe nello “squilibrio mentale”. Se solo si pensa ai risvolti economici e ai costi dell’operazione di spegnimento che si è appena conclusa e, più ancora, ai rischi effettivi corsi dagli abitanti e dal personale impegnato nei soccorsi, si ha conferma dell’assoluta follia di tale gesto.
Se si ipotizza una causa colposa, allora significa davvero che molto lavoro deve essere ancora sviluppato per limitare simili rischi. Distrazione? Supponenza? Sottovalutazione? Imperizia? Tutto è possibile, ma non giustificabile. Va rilevato che nella mentalità locale, l’accensione di fuochi per bruciare le stoppie (e passi …) ed anche materie plastiche che rilasciano sostanza tossiche, risulta ancora diffusa. Purtroppo, se gli sforzi educativi, sempre necessari, risultano vani, vanno previste e applicate adeguate sanzioni. Qui non ha importanza essere dentro o fuori dai confini del Parco. Infine non è neppure da prendere in considerazione (sarebbe blasfema) l’ipotesi che gli incendi vengano appiccati per far muovere mezzi e uomini e farli “lavorare” per aver diritto a rimborsi e aumentare il PIL.

2) Un attentato alle aree protette?
A partire dagli anni ’90, il nostro paese ha compiuto uno sforzo ingente per creare ed organizzare nuove aree protette ed allinearsi agli standard europei. Tra luci ed ombre (determinate queste da rigidità legislative prima e dall’imposizione di logiche di spartizione politica poi), la sensibilità e le opportunità sono cresciute creando però nuovi conflitti e appetiti gestionali. La crisi economica ha messo a nudo la fragilità di conquiste non sufficientemente consolidate e acquisite dai cittadini. Sono riaffiorate vecchie polemiche e i parchi sono stati considerati di volta in volta enti inutili, poltronifici a rischio soppressione, e dai quali si pretenderebbe un’impostazione aziendalistica e privatistica (generatori di reddito, anzi di profitto) senza dotarli di strumenti adeguati, neppure minimali, con il rischio di essere poi considerati superflui, appunto, o pretendendo da essi l’autofinanziamento attraverso ticket non praticabili per molteplici motivi.
Non abbiamo ancora maturato la convinzione che le nostre aree protette sono gioielli preziosissimi, aree speciali contenenti un patrimonio, cioè un capitale, da preservare e non da erodere. Essi sono di tutti, dei locali che ci vivono e ai quali va riconosciuta la priorità, per rispetto della storia, ma anche dei “cittadini del mondo”. Necessita trovare i giusti equilibri e le necessarie compensazioni. Si tratta di un nodo cruciale che è stato, a livello di politica nazionale, scarsamente valutato. Necessita una presa di coscienza, uno scatto di orgoglio per opporsi al processo di destrutturazione e di appiattimento in atto, che ha radici culturali e non economiche (solo un pretesto, constatato che si potrebbe  facilmente dimostrare l’indotto generato dalle aree protette). Non dovremmo rassegnarci a subire passivamente.

3) La partecipazione
Tra gli elementi più critici degli ultimi anni si annovera un progressivo calo di tensione “democratica”. Oggi è più semplice e di moda affidarsi a decisori illuminati, superando processi partecipativi che probabilmente si sono trascinati alcune scorie, ma che non per questo vanno abbandonati. Il consenso e la condivisione richiedono pazienza e tempi più lunghi, ma lasciano tracce profonde e solide, meno effimere. In un mondo caratterizzato dall’esigenza di visibilità immediata e di risultati a breve scadenza (compatibili con i turni elettorali) servono decisioni rapide e non emergono i risultati della pianificazione. Coinvolgere le comunità locali e informare correttamente la pubblica opinione richiede trasparenza e convinzione, e capacità di superare le inevitabili strumentalizzazioni da parte della stampa locale, alla ricerca di scoop e di divisioni.
La crisi dei processi partecipativi è evidente e nella gente si è gradualmente insinuato il virus della rassegnazione. Per fortuna non mancano esempi in controtendenza. Ad esempio sulla gestione del territorio i vari comitati locali che si occupano di agricoltura biologica, che contrastano le colture intensive, che si oppongono a progetti faraonici e devastanti, che richiamano alla salute, alla corretta alimentazione, alla tutela del nostro ambiente nel senso più ampio del termine. Stanno nascendo semi nuovi, forse pochi sono quelli che hanno già germinato, ma le idee buone sono destinate a camminare, non importa quanto lentamente.

4) Gli spazi naturali, un viaggio fra emozioni ed esigenze di sopravvivenza, con attenzione alle variabili economiche
L’incendio sul San Mauro ha interessato un’area che fino agli anni ’50 del secolo scorso era soggetta a falcio fin sulle pale più recondite. I miei stessi figli faticano a immaginarselo e solo chi ha vissuto questa fase storica può capire. Inutile rivangare tempi così duri, di stretta sopravvivenza. Ma il paesaggio è certo cambiato e ora siamo di fronte ad ambienti inselvatichiti, diversi, ma non privi di fascino e suggestione. I cambiamenti, il dinamismo naturale vanno accettati e, anzi, visti come necessari, senza troppe nostalgie. Tuttavia alcuni cambiamenti non sono del tutto naturali e mettono in evidenza aspetti di degrado più o meno preoccupanti. Certo le successioni secondarie e gli stadi di incespugliamento sono poco gradevoli, ma nel lungo termine sono anch’essi espressione di apprezzabile rinaturalizzazione. Il bisogno di avere spazi in cui lavorano solo i fattori naturali è e resta fondamentale e un parco nasce anche per questo. Non sono conteggiabili a livello economico i benefici derivanti dalla disponibilità di questi spazi. Come misurare il valore di beni immateriali quali l’assenza di disturbo, il silenzio, il paesaggio integro, gli effetti della luce e delle stagioni? Il 2011 è l’anno internazionale dedicato alle foreste. La mia più grande emozione da naturalista (sentimento a parte per le fioriture in Busa delle Vette, che sono straordinarie ma che hanno scala locale) è sensa dubbuio aver visto e apprezzato lembi di foresta “vergine”, ma utilizzata, in Europa, i cosiddetti boschi vetusti (Il Rotwald in Stiria per esempio, o una faggeta nel Banat in Romania, o i boschi di farnia e carpino bianco in Slavonia). Il Parco Nazionale deve servire anche a questo. Avere il testimone, il campione in bianco di come funzionano gli ecosistemi in Natura, dovrebbe essere fondamentale per tutti e sarebbe un tesoro inestimabile.

5) Tra i danni e i sentimenti feriti, anche nuove luci
Quantificare i danni ecologici è impresa ardua, ma essi sono certo ingenti, pur confidando nella capacità della Natura di ripristinare e di ricominciare dopo ogni catastrofe. Certo è giusto pensare ai nidi di aquila o alla fuga di camosci, all’avifauna stanziale e pregiata, ma non va dimenticata la pedofauna, neppure quella microscopica del suolo. Una serie di incendi, non si dimentichi, specialmente quando interessa interi versanti, fornisce sì minerali al suolo e fa crescere l’erba più verde e rigogliosa, ma è solo apparenza e le ferite lasciate sono profonde, durevoli, e aprono verso nuove nicchie erosive. Ho presente quanto accaduto in Val di Lamen pochi anni fa. Desolante e spettrale la situazione lasciata. La selezione operata dal fuoco, se è vero che potrà favorire qualche singola specie, magari vistosa, ha un impatto decisamente negativo sulla biodiversità.

Come altri abitanti del luogo ci si sente feriti nel profondo, nell’anima, qualunque sia stata la causa scatenante e l’origine del misfatto. Veder bruciare, a prescindere da preoccupazioni dirette e dall’aria quasi irrespirabile, le tue montagne, dove hai vissuto e studiato per decenni, lascia un sapore amaro, di impotenza. Rientrati nella “normalità”, è il caso di sottolineare anche alcuni positivi risvolti, quelli che consentono di sperare che la dura lezione (e la Natura dà molti segnali, che noi spesso sottovalutiamo) venga recepita e si faccia tesoro dell’esperienza.

Anzitutto la gente, i tanti volontari che hanno operato, encomiabili. Vorrei sottolineare l’intervento di tre miei vicini di casa che ancora domenica sera, in condizioni che oserei definire rischiose, anche per l’aria che si respirava, sono saliti, quando era già buio, fino alla chiesetta di San Mauro, operando affinché essa venisse risparmiata dalla furia delle fiamme. Segnale che l’identità non è perduta, e qui non si tratta certo di valori solo religiosi.

Il coordinamento, per quanto ho potuto verificare, ha funzionato e, fato che ritengo singolare e beneaugurante, i responsabili si sono dimostrati “umili” chiedendo informazioni e consigli anche alla gente del luogo. Atteggiamento certamente non consueto e che si è rivelato utile. Segno che nonostante le pecche delle istituzioni (leggi canadair a terra), abbiamo ancora risorse umane per salvare questo paese. La gente, quindi, è la nostra forza. Forza che deve essere un tutt’uno con la salavaguardia della Natura, che non è contro l’uomo, ma che è parte di noi stessi.
La lezione del nuovo incendio sul San Mauro è che si dovrà ancora molto lavorare su queste basi. Il Parco, in questi casi, è una vera risorsa ed è fondamentale che esista, ma non per svolgere compiti burocratici di cui anche altri enti potrebbero occuparsi, ma per essere il laboratorio che sperimenta nuove soluzioni di sostenibilità e il faro che guida verso un rapporto maturo ed equilibrato tra la società degli uomini e il territorio in cui essi operano e che consenta di lasciare alle generazioni future un pianeta ancora vivibile, senza continuare a consumare, come ora stiamo purtroppo facendo, ciò che spetta ai nostri figli, lasciando loro ricchezza e benessere finti, oltre a debiti insolvibili.

Cesare Lasen autore del post

Cesare Lasen | Biologo, insegnante, con studi rivolti al settore della botanica (floristica, fitosociologia, ecologia e studi applicativi). Ha pubblicato oltre 220 titoli tra volumi a carattere scientifico e/o divulgativo e articoli su riviste specializzate, anche internazionali. Ha partecipato a diverse commissioni e gruppi di lavoro a livello CAI e in ambito ministeriale o regionale. Primo Presidente del Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi (1993-1998) e consigliere della Fondazione Cariverona (2000-2010).

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