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Eterno vagabondo, climber spericolato, guida alpina, viaggiatore, cooperante, giornalista, padre di famiglia. Chi è oggi Franco Perlotto, ex sindaco di Recoaro? Proviamo a scoprirlo in occasione della presentazione del suo libro in cui narra la straordinaria vicenda del vicentino Bruno Gramolòn, aspirante rivoluzionario, soprannominato “l’indio” dagli indigeni venezuelani.

NLella serata piovosa, il traffico impazzisce sui bastioni di Porta Romana mentre, tra gli scaffali della benemerita libreria-enoteca “Monti in città” che si affaccia su viale Montenero, Franco Perlotto dipana il filo multicolore della sua vita di eterno vagabondo.
L’occasione è offerta dalla presentazione a Milano del suo libro “Indio” (1), frutto di passate esperienze di cooperante nelle terre amazzoniche. Vale per Perlotto il giudizio espresso a suo tempo per il valtellinese Alfonso Vinci che in “Cordigliera” (1959) raccontò magistralmente delle sue peregrinazioni nel Sud America: solo uno scrittore di razza dalla vita avventurosa e dalla cultura profonda può raggiungere risultati tanto convincenti.
Così in “Indio”, di pagina in pagina si sviluppa con consumata perizia narrativa la storia di un professore vicentino che in Sudamerica vive solo e disilluso dopo avere coltivato il sogno della Nazione india e di una rivoluzione armata.
L’argomento è appassionante, ma l’interesse dei convenuti è legato alla possibilità di incontrare ancora una volta questo redivivo “bocia matto” di Trissino, protagonista e testimone di una rivoluzione epocale nel piccolo mondo dell’alpinismo: la nascita del free climbing, quell’arrampicata libera che negli anni Ottanta venne osteggiata da non pochi “luminari” del “vecchio” alpinismo e alla quale Perlotto ha dedicato un fondamentale manuale della Sperling & Kupfer.

rs_Franco Perlotto_01Franco Perlotto sarà tra i  personaggi ospiti di LetterAltura a Verbania il 27 giugno 2014 nel corso di un incontro con Mirella Tenderini sul tema  “Dalle cime dolomitiche all’Amazzonia”.

Le attese non sono deluse. Franco trasmette la consueta simpatia con quell’aria un po’ guascona, ma si intuisce che il recente infarto subito mentre filava verso Roma al volante lo ha costretto alle buone pratiche di prammatica in questi casi mettendolo al riparo da vizi e stravizi. Non tutto il male viene per nuocere, si sa.
Parla sottovoce con l’inconfondibile accento vicentino, Perlotto, e si lascia volentieri abbracciare dagli amici venuti ad ascoltarlo e a presentarlo. Tra questi Piero Carlesi che ha ricordato le sue cronache sullo Scarpone quando la testata oggi “giustiziata” dal Cai era in mano all’alpinista e magnate Guido Monzino, il critico letterario Maurizio Bono, l’inviato di Airone Antonio Lopez con cui Perlotto visse esperienze indimenticabili lungo i fiumi amazzonici, Roberto Copello che ne cantò le gesta sul quotidiano “Avvenire” ai tempi delle big wall affrontate in capo al mondo, Sandro Filippini, firma illustre della “rosea” e oggi partner di Reinhold Messner in fruttuose esperienze letterarie.
E, se mi è consentito, il sottoscritto che ha potuto più volte verificare in tanti anni di giornalismo di montagna la disponibilità, il buon carattere, l’innata attitudine di Franco a smussare tensioni, a dimenticare affronti: qualità sconosciute a una buona parte di grandi e piccoli alpinisti a me noti.
Oggi, dopo le 42 vie nuove tracciate, tra le quali 7 in solitaria, 69 solitarie tra le quali 18 prime, 15 prime invernali, ha scelto di correre altri rischi, e non meno mortali.

Amazzonia, inizio anni ’70: la foresta più grande del mondo è nel tuo romanzo il teatro d’azione di Bruno Gramolòn, nome di battaglia Urimàn, soprannominato Indio dagli indigeni Pemòn. A chi ti sei ispirato?
Il libro prende spunto da fatti realmente accaduti. Sta di fatto che questo mite professore di matematica in un paesino del vicentino diviene un fine stratega di una rivoluzione mancata. Una storia esemplare e sempre attuale. Gramolòn fa il coadiutore missionario per copertura, in un angolo sperduto di Venezuela. Ma ha soprattutto nella testa, il mito di Simon Bolivàr e di una rivoluzione mai iniziata.

Riepiloghiamo: nel 1985 a Esmeralda, terra desolata e abitata in prevalenza da zanzare, dove svetta il monte Duida, la Montagna del Diavolo, l’io narrante intende visitarne ancora una volta gli anfratti rocciosi e s’imbatte nel vecchio Urimàn…
Ho scelto di romanzare la vicenda per immergerla nel mito, cioè fuori del tempo. Ho condotto poi il lettore dall’Amazzonia alle Piccole Dolomiti per ripercorrere i passi della storia italiana del protagonista: un figlio perso sulle montagne, una ferita che non si è più rimarginata. Ho scritto spesso di slancio, sotto l’impulso dell’ispirazione, e anche per allentare la tensione quella volta che in Afghanistan ero chiuso in camera sotto i bombardamenti.

La storia è un po’ datata… quando l’hai concepita?
Il manoscritto mi è rimasto parecchio nel cassetto e oggi, grazie al giudizio favorevole espresso da una persona competente di letteratura alpinistica come Mirella Tenderini, ha finalmente trovato un editore che ne ha reso possibile la pubblicazione.

Una curiosità: com’è possibile che laggiù nel Mato Grosso gli abitanti abbiano cognomi veneti, come risulta dai tuoi scritti?
Roba da non crederci. Eppure a Guarantã do Norte, in Mato Grosso, vivono settanta famiglie oriunde venete. La piccola comunità di trecento persone, ignara delle proprie origini, ha ritrovato le sue radici proprio grazie al nostro incontro, mentre ero in missione in Brasile per il Ministero degli Affari Esteri. Nel corso della spedizione ecologica organizzata per salvare il Mato Grosso dalla deforestazione, rimasi poi folgorato nell’ascoltare la lingua parlata dai contadini del luogo. Gli autoctoni comunicavano in dialetto veneto! A riprova della scoperta, a Guarantã do Norte gli abitanti portano cognomi dall’inequivocabile appartenenza: Zanon, Torresan, Bassan. Il contadino Darcy Zanon, in prima linea nella lotta per la difesa dell’Amazzonia, ha addirittura fondato un’associazione di italiani che riunisce gli oriundi veneti di quarta generazione. Sono tutti legati dallo stesso modo di parlare e dagli stessi inconfondibili gusti: polenta e formaggio, grappa (di canna da zucchero in questo caso) fatta in casa e ballo rigorosamente italiano.

rs_Franco Perlotto_02Ti definisci “eterno vagabondo”, sei guida alpina, viaggiatore, giornalista. Hai visitato una cinquantina di paesi in tutto il mondo e hai scalato alcune centinaia di montagne, molte delle quali da solo. Per quattro anni hai coordinato un programma del Ministero degli Esteri contro gli incendi forestali in Amazzonia. Hai operato in missioni umanitarie in Afghanistan, Palestina, Ciad, Bosnia, Zaire, Rwanda, Sudan, Congo, Sri Lanka e Brasile. Sei stato per tre anni sindaco di Recoaro. Che cosa ancora ti aspetti dalla vita?
Mi accontento di poter continuare la mia attività di cooperante, continuando a illudermi di poter aiutare popoli come quelli dell’Amazzonia e per esteso di ogni luogo. La corsa all’Eldorado laggiù non ha infatti portato alcun beneficio, se non la deforestazione e un intero ecosistema a rischio. Un particolare vorrei sottolineare. Se gli incendi nella grande foresta amazzonica sono diminuiti del 70 per cento, il merito va soprattutto al grande impulso per la salvaguardia del patrimonio forestale coordinato dal Programma Fogo, progetto di cooperazione voluto dal Governo Italiano e seguito dalla nostra Ambasciata a Brasilia.

Paolo Rumiz, scrittore e inviato speciale, nel tracciare un tuo ritratto invita a non chiamarti alpinista: la verticale non ti basta. Ti definisce “un gaucho inquieto, disattento al proprio ombelico, che divora orizzonti a morsi”. Ti riconosci in queste parole?
Se lo dice lui che mi conosce bene, qualche ragione c’è… In realtà i conti con il grande alpinismo li ho chiusi una ventina d’anni fa. Come esperto di emergenze, mi sono messo al servizio della cooperazione internazionale lavorando nelle foreste dell’Amazzonia, assistendo i bambini dispersi nella guerra di Bosnia. Sono stato inviato nelle terre devastate dallo tsunami, dove ero responsabile per il Dipartimento della protezione civile dell’ufficio di Trincomalee, nella regione nordest di Sri Lanka, centro del conflitto etnico religioso tra Cingalesi e Tamil…

Franco Perlotto in Yosemithe

Franco Perlotto in Yosemithe

Qual è o è stata la quintessenza del tuo alpinismo?
Sono fondamentalmente un solitario nella vita come in montagna. Arrampicare da solo è stata per me la forma più significativa di affrontare la montagna e soprattutto le pareti di roccia. Ho affrontato da solo la lunghissima Trollryggen in Norvegia come la liscia parete del Capitan in California come centinaia di salite solitarie sulle Alpi.

Ti definiresti un rivoluzionario?
Nella mia vita ho un unico filone portante che ha attraversato le mie varie attività dall’alpinismo alla scrittura, dai viaggi in luoghi remoti alla cooperazione allo sviluppo: l’amore per la natura e per gli esseri umani che la vivono. Nell’alpinismo non sono stato rivoluzionario: ho solo cercato di proporre evoluzioni possibili. Ora il tempo mi sta dando ragione. Eravamo semplicemente contro i chiodi a pressione e ci battevamo per un alpinismo pulito. Magari ogni tanto la discussione saliva di tono, ma non me la prendevo con qualcuno in particolare, bensì con idee, concetti che non condividevo. Riccardo Cassin mi disse chiaro e tondo che le mie idee erano troppo avanti con i tempi. Piuttosto che rivoluzionario mi sento un cavaliere solitario anche delle idee.

Franco Perlotto e Walter Bonatti (ph. Filippo Zolezzi)

Franco Perlotto e Walter Bonatti (ph. Filippo Zolezzi)

Filippo Zolezzi

Con il senno di poi ti ritieni davvero un precursore?
“Un pochino sì, anche se come ho scritto nel mio manuale io non vedo, tra free climbing e alpinismo classico, quello stridente contrasto che molti vogliono trovare; anzi scorgo parallelismi e affinità. Purtroppo l’uomo ha sempre bisogno di regole e simboli che distinguano le sue idee, ama le classificazioni e le schematizzazioni. Solo ora qualcuno inizia a parlare di arrampicata pulita: un concetto che ho anticipato intrinseco a tutte le mie battaglie dei primi anni 80”.

Hai rivoluzionato anche il look dell’arrampicatore che per distinguersi dai vecchi si fece crescere i capelli, mise la fascetta sulla fronte e l’orecchino. Ci racconti come è andata?
L’eden dell’arrampicata di Yosemite in California mi aveva attratto irresistibilmente. Erano gli anni Settanta, i tempi dei figli dei fiori. Al ritorno proposi a un’azienda una linea di abbigliamento tecnico più in linea con quei tempi. Anche da noi si doveva cominciare a sostituire i vecchi pantaloni alla zuava e i calzettoni rossi. Nello stesso periodo con Yvon Chuinard, l’inventore del marchio Patagonia, ho studiato un nuovo modello di scarpe a suola liscia ai piedi della Sisilla nelle Dolomiti vicentine. La Bailo ha approvato, ma con una riserva: il suo storico marchio non doveva essere messo a repentaglio da un eventuale fallimento, così la battezzammo Think Pink, “pensa rosa”, il nome di una via tracciata dall’inglese Ron Fawcett e di un ritornello alla moda di Henry Mancini. Orecchino e altre mode non le ho mai subite. Sicuramente non ero un hippie, proponevo semplicemente un’idea nuova.

Mai fatto gare, mai piantato uno spit?
No, mai. Ho sostenuto le mie tesi nella rubrica sullo Scarpone intitolata ‘Parliamone’. Era, quella che professavo, la filosofia della modernità che si alimentava di nuovi materiali, allenamenti assidui e intensi, nessuna soggezione per le difficoltà e le pareti più ostili.

Mai avuto paura di morire?
Quel pensiero credo sia una costante nel mondo delle scalate. L’ho raccontato in parecchi miei scritti e soprattutto nel mio primo romanzo ‘La terra degli invisibili’. Nel mio primo libro del 1986 “Dal freeclimbing all’avventura” ho raccontato di quella volta che in Norvegia rimasi bloccato su una cengia da cui non sapevo come saltare fuori. Per proteggermi la ritirata a corde doppie su 2400 metri di parete avrei dovuto portarmi una quantità impossibile di chiodi. Ho pianto quel giorno, correndo su e giù per la cengia come un topo in gabbia. Poi è bastato razionalizzare la situazione e ne sono uscito.

Qualche rimpianto?
In veste di sindaco di Recoaro, parecchio sono riuscito a fare in quei difficili anni e molto ancora mi sarebbe piaciuto riuscire a portare a termine. Ma l’abbandono di coloro che, nel pieno delle difficoltà hanno preferito fuggire dal loro incarico e l’incattivimento di alcuni politicamente perdenti, ha frenato molte delle mie azioni. Ho comunque lasciato un Comune con i conti a posto nonostante la grave crisi finanziaria globale. E sono certo di avere messo a disposizione, in quei tre anni, il massimo impegno e tutte le forze che avevo a servizio del paese. In poco tempo ho realizzato un palazzetto dello sport, ho sistemato 54 frane ed ho affrontato il problema della scadente struttura scolastica.

A Recoaro dove vive, oggi Perlotto ritorna appena può tra una missione e l’altra. Lo aspetta la moglie Nadia Benetti che gli ha dato il figlioletto Lorenzo di sei anni, adorato quanto il più grande Carlo, avuto dalla precedente moglie Angela con cui ha condiviso diverse avventure e la gestione del rifugio Pellarini nelle Alpi Giulie.
La montagna? Oggi Franco s’incammina di frequente da solo per vie normali o al massimo di quarto, su e giù per le Dolomiti. Qualche volta con Nadia. Sostiene che non trova il tempo di annoiarsi. Ma, conoscendolo come il prototipo dei tipi inquieti, gli si deve credere?
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(1) Indio, di Franco Perlotto, editore Alpine Studio, 2014, pp. 126, € 14.00

Roberto Serafin autore del post

Roberto Serafin | Giornalista professionista, redattore per un quarto di secolo del notiziario del CAI Lo Scarpone. Ha curato a Milano la mostra “Alpi, spazi e memorie” e il relativo catalogo, ha partecipato con il Museo della Montagna “Duca degli Abruzzi” all’allestimento della mostra “Picchi, piccozze e altezze reali”. E’ autore di numerosi libri di montagna, tra cui l’ultimo “Walter Bonatti, l’uomo, il mito“. Con il figlio Matteo ha pubblicato il volume “Scarpone e moschetto”. Da alcuni anni di dedica quotidianamente alla sua creatura editoriale www.mountcity.it

5 commento/i dai lettori

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  1. gae il5 agosto 2014

    Perchè putroppo? Le sue qualità arrampicatorie sono indiscusse e la sua filosofia di vivere la montagna è stata ed è di ricerca, oltre il gesto atletico … Ritengo inoltre, la storia ne è testimone, che il suo vivere è andato oltre la verticale. La passione per la montagna, se esclusiva, si riduce ad evasione per frustrati. (Ampia letteratura, a partire da Gian Piero Motti …)

  2. Filippo Zolezzi il5 agosto 2014

    Ottimo articolo, solo un piccolo appunto: la bellissima foto che ritrae un insolito Walter Bonatti in affettuoso gesto con Franco Perlotto non è di D. Panato, ma del sottoscritto Filippo Zolezzi, scattatta a Trento nella sala della Cassa di Risparmio all’ultima uscita pubblica di Walter al FilmFestival

  3. ir. giustina zanato il29 giugno 2014

    Come mi piacerebbe conoscerlo personalmente…non ho conosciuto molti Paesi del mondo…ma il mio PRIMO AMORE e UNICO: sarà sempre il BRASILE….con una FIGLIA UNICA CHIAMATA AMAZZONIA…dove ho vissuto per ben 29 anni….ora nella terra del Fuoco chiamata MARREBENTA: MOZAMBICO…sogno ancora le vie d’acqua e i figli di una foresta che amo e che ho visto crescere attorno a me senza nessuna firma di modo, ma con la sola voglia di VITA. Sono Giustina Zanato nata a Marostica….

  4. bepi magrin il28 giugno 2014

    Perlotto….? Purtroppo lo conosco!

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