croce_01

Dalle Prealpi venete alle Alpi austriache, lungo i sentieri montani, un tempo vere e proprie vie di comunicazione per alpeggio, attività boschive e commercio, si incontrano edicole, capitelli, crocifissi e chiesette a ricordo di qualche fatto straordinario o per semplice devozione, paragonabili per numero ai simboli di altre religioni diffusi un po’ dovunque tra le montagne dell’Himalaya.

Un’autorità assoluta in campo alpinistico ha sollevato, probabilmente a ragione, il problema sull’opportunità dell’esistenza di croci poste sulle vette principali delle nostre montagne, ma parlando di simboli religiosi posti in luoghi diversi, molto meno eclatanti dal punto di vista naturalistico, alcuni fabbricati, scolpiti, dipinti secoli addietro, ritengo ricoprano una certa importanza nell’ambito della cultura popolare, nelle tradizioni e anche nella storia con la “esse” minuscola.
A passeggio lungo questi percorsi, con l’andatura di don Abbondio, e incontrando spesso di queste immagini più o meno sacre, ho pensato e scritto quanto segue:

≈ ≈ ≈

sass de mura_01Alpi: Marittime, Cozie, Graie e via di seguito con alpinismo, impresa, conquista e anche l’invidia di coloro, come me, che non vanno oltre lunghe camminate per sentieri sotto le pareti di roccia soddisfatti dal sogno dell’emulazione che viaggia libero divaricando senza misura la realtà.
Il sogno delle grandi imprese si perde nella visione serena e lontana delle creste dolomitiche protette dalla barriera alpina che va dal Cimonega allo Schiara, grigiastre e cupe come guardie schierate a difesa del paradiso azzurro, arancio e rosato delle Pale e del Civetta dove risiede Dio con i suoi angeli e le anime dei beati.
Poi uno slargo piatto, più pianura che valle, dove scorre un fiume già tranquillo, chiuso, si fa per dire, da un’altra sequenza di rilievi che hanno dignità di montagne, ma che sembrano piuttosto grosse colline: il purgatorio, sempre per induzione fantastica, dove per secoli e secoli le anime espianti hanno dissodato, coltivato e sudato per conquistare la pace eterna.
Mancherebbe l’inferno, ma c’è: nascosto sotto le rupi delle Prealpi trevigiane, tra schegge di roccia, massi minacciosi, crepe, grotte e tane dove i demoni attendono i dannati. Esaurita la fantasia il pensiero ritorna sulla terra, in quella terra abitata da millenni da genti diverse, nonostante le condizioni ambientali tutt’altro che agevoli.
Celti, Romani, Unni, Goti, Longobardi e Slavi e Veneziani, perfino i Turchi prigionieri di quest’ultimi: gente che occupava, conquistava o scappava da pestilenze e carestie che cercava rifugio o improbabili ricchezze in questi luoghi sconnessi e avari. E pensare che da questo bel miscuglio di popoli Benito Mussolini, istigato dal suo compare tedesco, volle sintetizzare la razza ariana; risultato: equazione tra stupidità al quadrato e tragedia al cubo.

muretto_01La luce di un mattino senza gloria trovò Bepi Bombarda coricato in un fosso
Ma io non voglio parlare di massimi sistemi, piuttosto ricamare qualcosa tra il vero e il fiabesco accaduto qualche decennio fa, forse ché di certo non si sa, lungo i pendii tranquilli di quella specie di Purgatorio già menzionato poco sopra. Povertà, emigrazione e dignità le costanti di questi luoghi al tempo di Santa Maria e di Bibi.

Santa Maria non era un nome di battesimo e non aveva nulla a che fare con la caravella di Colombo, mentre Bibi non era certo Brigitte Bardot ma un certo Bepi Bombarda, altro soprannome, che dopo aver tentato parecchie strade, tutte impervie, aveva alzato bandiera bianca e con la bandiera anche il gomito.
Questo il tempo di mezzo e con il tempo anche la gente di allora vissuta e vivente a quota geografica montana tra i seicento e i mille metri il cui sguardo incrocia, a volte, quelle creste rosate, sopra il piano, oltre la barriera cupa delle Prealpi, avvertendo l’ignoto fantastico “con animo perturbato e commosso”. Capitò di sicuro, anche se il forse, il dubbio montò il seguito.
La luce di un mattino senza gloria trovò Bepi Bombarda coricato in un fosso asciutto sotto la scarpata di un viottolo poco battuto che sale al faggio gigante e alla chiesetta di Santa Maria, in alto, ben oltre il bosco, al limite del pascolo. Il poveraccio vi era caduto a notte fonda e là s’era addormentato per la sbornia. Nessun fantasma s’azzardò a molestare quel sonno che portava i segni della lotta sostenuta con un tratto di rete metallica e con le spine di rosa canina aggrappate al pietrisco del pendio.

– Hoi, hoi… – si lamentava il ferito tra bozzi e graffi, ma il rantolo era troppo debole e distante per essere avvertito. Bepi tentò di raccogliere le forze residue: assenti; le gambe inerti e percorse da un perfido tremore, mani e braccia insanguinate, doloranti, inutili.
– Chi mi toglie di qua? – piagnucolava il poveraccio in preda al panico della solitudine.
– Nessuno mi vede, nessuno mi sente, nessuno mi cerca… – si lamentava esausto.
– Sarò quello che sono, ma tutti mi conoscono, qualcuno mi troverà… forse. – pensava nel dubbio tra speranza e disperazione. Il tempo se ne andava e il soccorso tardava.
– Aiuto! – tentava di gridare, ma il suono era flebile, afono.

La strada del paese non distava che una decina di metri ma, dal fosso, non si vedeva, né, dalla strada, si poteva scorgere la buca, nascosta com’era da una siepe di nocciolo. Tuttavia, vicino, vicino, svoltava un sentiero, che, scendendo dall’abitato, girava in tondo sul ciglio della bolgia infernale nella quale si dibatteva Bibi.
Libera animas omnium fidelium defunctorum de poenis inferni…
– Aiuto! – Et de profundo lacu…
– Aiuto! – Speranza, soccorso: rumore di passi sopra il fosso?
Libera eas de ore leonis, ne assorbeat eas tartarus ne cadant in obscurum…

sant antonio_01Non dunque minuti o metri, ma avemarie
Latinorum? Qualcuno mormorava le orazioni dei morti, Santa Maria passava di là un giorno la settimana per andare su, fino alla chiesa di Antonio abate, perciò detta di Santa Maria, in alto, sopra il bosco, a mezzo tra il pascolo e la cima del monte.

Santa Maria, o Maria Santa, s’era assunta l’incarico di tenere in ordine la chiesa che distava dal paese il tempo di un rosario fino al faggio secolare e di un altro dal faggio al sagrato e se il passo era lento ci stavano anche le litanie, non dunque minuti o metri, ma avemarie con l’aggiunta di preces definctorum nel passaggio sopra il fosso di Bepi, immagine vaga della porta dell’inferno.

Finalmente il soccorso preceduto da una voce di donna:
– Chi è? Bepi? Oh, poveretto! Che hai combinato questa volta? – Bepi si sentì vivere quant’era ormai sicuro d’essere morto.
– Sono scivolato, sono caduto… –
– Poverino, ti puoi muovere? – chiese la santa pulendo alla meglio il viso del poveraccio.

Bepi balbettava la sua gratitudine piagnucolando come un bambino, ma non si mosse, anzi ingrossava i suoi mali come protesta per antiche carenze affettive, guaio non minimo della sua sorte.
La donna, intanto, stilata la diagnosi e giudicato quel caso serio ma non grave, rassicurò il ferito:
– Non ti muovere, chiamo rinforzi e vedrai che in mezz’ora sarai un Bepi nuovo di zecca. –

E detto fatto corse via a cercare soccorso, ché, secca e minuta com’era, da sola non avrebbe potuto smuovere quel peso morto ben disposto a fare il malato da quando l’angoscia s’era dileguata.

madonnina_01Ingratitudine, rabbia, sconforto e maledizioni
Maria riapparve poco dopo con l’aiuto promesso: il medico condotto e tre uomini robusti.
Bepi fu medicato e spedito all’ospedale con l’ambulanza per le cure del caso, assicurò il dottore, con l’aggiunta di una quarantena, confermò il medesimo ai curiosi. Tutto avvenne in fretta, senza che il malato sospettasse di doversi astenere dal vino per tempo e tempo. Il ferito se ne accorse di lì a poco e conobbe l’astinenza sua nemica e costretto a dibattersi in quello stato insopportabile meditò l’ingratitudine. Se la prese con la donna che lo aveva soccorso, col medico che lo aveva recluso, con i santi e i bigotti che s’ostinavano a salvare l’umanità dannata: che badassero ai fatti loro senza ficcare il naso in casa d’altri. Ma lo sconforto, che sempre seguiva la rabbia, opponeva al malanimo la vergogna dell’ingratitudine e la speranza lontana, lontana di cambiare vita, poi il sonno chiudeva il giorno.

Seguiva un nuovo mattino di clausura forzata che proponeva al paziente nuove insidie viscide, lascive, dimesse a tal punto che se Bepi avesse potuto sostenere una prova diretta, faccia a faccia con una bottiglia, sarebbe riuscito a resistere, avrebbe vinto, ma là prove simili non erano ammesse. Allora, mentre gli cresceva la smania di misurare quella certezza, sfogava l’impotenza in assoluto silenzio caricando d’insulti la classe medica, la cerchia dei suoi amici sobri e Maria Santa…, quella beghina, l’unico essere umano a calcare ancora quella sorta di viottolo per andare fin lassù in quella specie di baracca che dicono chiesa.

Bepi la bombardava con le sue bestemmie peggiori e le scagliava le sue maledizioni migliori:
“Bastava che mi avesse tirato su, un volta in piedi me la sarei cavata da me, ma lei vuol fare il bene col rimorchio, suonare la tromba perché gli angeli la sentano! E poi, chiamare il dottore. A che serve il medico? Non li so da me i miei mali? Ma lui ha il dovere della scienza: soccorrere gli ubriachi e farli smettere, lui, lei, guarire, convertire. Scienziati, santi e chi ci va di mezzo sono io: vorrei vedere loro chiusi qua dentro a contare le ore.”

Pensava Bepi ogni giorno di quella clausura, ma agli amici che lo andavano a trovare non confidava alcun disappunto, anzi si presentava sorridente, deciso a mollare il vino. Quando poi Maria Santa passava a salutarlo, Bepi piagnucolava e piangente ringraziava la salvatrice per quella salvezza sobria, ma in sé la commozione sguazzava nel fango dell’ipocrisia:
“Bada ai fatti tuoi, vecchia befana, e lascia stare il prossimo tuo!”

L’insolenza non appariva mai, l’ingratitudine cambiava aspetto mostrando un uomo messo a nuovo, affrancato dalla corruzione. E Maria se ne andava tutta contenta di aver fatto del bene a un’anima persa.

Brutta e stupida, uno sgorbio che vuol far del bene al prossimo
L’ingrato, asciugate in fretta le lacrime, l’accompagnava con le sue maledizioni zitte:
“Vecchia beghina tieni per te le tue preghiere che a me portano male e va a consolare i bigotti del tuo stampo ché io sto meglio solo, voglio essere solo e se lo sono è perché l’ho voluto io, tu, la solitudine te l’ha imposta la natura: chi la pigliava una come te? Brutta e stupida, uno sgorbio che vuol far del bene al prossimo, il prossimo che non t’ha voluta.”

Oltre Bepi non poteva andare e bloccava il pensiero avvertendo l’eccesso: più in basso non sarebbe potuto cadere. La vergogna cacciava la rabbia dalla sua zucca che restava vuota un momento prima che s’affacciasse la paura di cose arcane sghignazzando e rintronando in quello spazio angusto come aria nel cavo di un tronco marcio. Il poveraccio allora cercava rifugio nella speranza:
“Uscirò di qua prima o poi!”

Santa Maria non era dunque una bella donna, ma nemmeno il mostro che ne faceva Bepi, poi, raggiunta la settantina, l’etica sopperisce all’estetica e Maria secca e minuta com’era sostituiva le lacune fisiche con la forza d’animo e da questa casualità traeva il meglio di sé. Votata al bene degli altri, poveri quanto lei, ma privi di quell’energia che non si sa da dove venga e che lei trovava nella religione.

Dama di carità? No, quelle son ricche. Bigotta? Forse, ma esiste una definizione del termine, un tantino dotta, che più o meno recita in modo simile:
“Quando la ragione e l’esperienza riescono a definire l’errore, la perseveranza supina in esso rappresenta l’essenza del bigotto, sia religioso che ateo.”

Galileo ne sapeva qualcosa. Concetto comunque fuori dalla portata di Maria perfettamente digiuna di scienze teologiche e filosofiche. Perché dunque la facevano bigotta, non solo Bepi, ma l’intero paese? Forse, forse…

faggio_02Il sentiero di Antonio abate sale ripido e incrocia, più su, appena prima del grosso faggio
Pare che Maria abbia incontrato la Madonna, un bel mattino di maggio, lungo il sentiero di Antonio abate, sotto il grande faggio a mezza strada. Le si era parata in faccia come un carabiniere sugli attenti vestito di bianco e di azzurro. E c’era una luce, una luce che non si può dire se fosse maggiore questa o quella del sole tirato su dai monti dell’Alpago.

Storie montate da gente malvagia per screditare la santa, l’unica a non sapere nulla di quell’invenzione. Ma la gente chiacchiera e allunga, condisce, sghignazza. Sembra che la Beata Vergine fosse alquanto severa, forse contrariata dal fatto che nella chiesetta sul monte non vi fosse nessuna immagine sua, soltanto un crocifisso e tre croste con il ritratto di Sant’Antonio abate vecchio, vecchio e le sue bestie, reparto geriatria, San Rocco con le sue piaghe, reparto infettivi, San Gottardo con le sue stampelle, reparto ortopedia, un piccolo ospedale, insomma, senza madonne. Eppure la chiesa sorgeva tra il bosco e il pascolo, appena sotto la cima del monte, un luogo decoroso in faccia alla meraviglia del paradiso azzurro, rosa e arancio, lontano sì, ma bene in vista oltre la barriera grigia delle Prealpi quando il tempo è bello.

Il parroco di allora, buon diplomatico, mise a tacere tutte quelle dicerie e la faccenda morì senza clamori e senza offendere tanto Maria Santissima quanto Santa Maria. E poi che ci faceva la Madonna in quel paese? Per lo più burbera e risentita? Avrebbe fatto miracoli a rovescio e già ce ne sono fin troppi di sorte avversa.

Forse, forse tutta la faccenda prendeva lo spunto da un piccolo particolare che poteva da solo innescare la fantasia.
Il sentiero di Antonio abate sale ripido e incrocia, più su, appena prima del grosso faggio, le tracce di una strada antica incassata e fonda tra due mura vecchie come gli antichi romani, supera, ancora più avanti, l’erta di un colle quasi a perpendicolo, incuneata sotto la volta di un arco di pietra, tetro come l’inferno, ma, quando il sole incrocia la cima del monte anonimo, il broncio secolare del luogo si apre alla luce filtrata e riflessa di un sorriso disegnato dal bianco del fondo di ghiaia e dal bruno dei sassi accatastati a sostegno e misura di ogni eccesso.

Mario Ferrazza autore del post

Mario Ferrazza | Pensionato, escursionista, buon camminatore, mediocre scialpinista, pessimo fotografo. Iscritto al CAI Feltre dal 1988, ha percorso le Dolomiti in lungo e in largo, con qualche incursione nelle Alpi Occidentali e Centrali, compreso un paio di tracciati classici in Nepal. Vivo a Mel (BL).

1 commento/i dai lettori

Partecipa alla discussione
  1. De Mari Renato il1 giugno 2013

    continua così e se vuoi registrare un racconto fammi sapere che lo leggo sani

Lascia un commento