Nel 1912 Guido Rey ha 51 anni. Membro dell’operosa borghesia piemontese – la sua famiglia, di origini ebraiche, era nell’industria dei tessuti – era stato avviamo alla montagna dallo zio Quintino Sella, uno dei fondatori del CAI. In montagna aveva perduto suo fratello Mario, a 17 anni, travolto da un masso sul pendio che conduce al Colle del Gigante. Da quel giorno (primo agosto 1885) Rey non aveva più messo piede nel gruppo del Bianco. La sua montagna d’elezione era stata il Cervino, alla quale aveva dedicato la maggior parte della vita alpinistica e della produzione letteraria.
Risultato di questo amore fu “Il monte Cervino”, uscito nel 1904, che ne consacrò la fama anche internazionale, come poeta della montagna. Nel 1937 Ettore Zapparoli dedicherà a lui una delle sue vie sulla Est del Rosa: La Cresta del Poeta.
Nonostante i larghi mezzi di cui disponeva, Guido Rey non si votò interamente all’alpinismo, che coltivò in parallelo con la fotografia, ma sempre da dilettante. Anzi, si potrebbe riconoscere in lui una delle ultime figure di dilettante di alto livello – anche morale – quali furono i gentlemen inglesi che portarono l’alpinismo su tutte le Alpi. Egli stesso si riconosceva “tra coloro che stanno tra l’antica e la nuova generazione degli alpinisti”. Un passo rivelatore del “Monte Cervino” è quello dell’incontro fra Rey che sta scendendo a valle e il vecchio Whymper che è tornato ancora una volta a rivedere la sua “Gran Becca”. Un passo che si può accomunare a quello famoso e toccante del saluto di Buzzati alle Pale di San Martino:
O Pale di San Martino, o vecchie, o patria!
In automobile io risalgo la valle e vi guardo, la mia giovinezza è lassù.
E non è rimasto più niente. [D. Buzzati, Cronache terrestri, Mondadori , Milano, 1972]
Solo nel 1910, dopo una vita trascorsa sulle Grandi Alpi, Guido Rey vive la sua prima esperienza dolomitica. Scopre allora che, non solo le crode dolomitiche presentano difficoltà di arrampicata impensabili nelle occidentali, ma anche un rapporto con la guida improntato a principi che tendono a cancellare ogni forma di subalternità e servilismo nei confronti dei “signori”. Questa è la prima lezione che Guido Rey e il suo compagno hanno riportato dall’esperienza vissuta in alcune ascensioni compiute con una giovane guida della Val di Fassa: Tita Piaz.
Il compagno di Rey era Ugo de Amicis, figlio del famoso scrittore torinese e già con una esperienza alpinistica di tutto rispetto. Ricorderemo che Ugo era insieme a Piaz, nel 1907 quando questi fece la traversata a corda dal Campanile di Misurina alla Guglia De Amicis; impresa che suscitò grande scalpore nel mondo alpinistico dell’epoca e che lo stesso protagonista rinnegò nel seguito. Fu, dicevamo, merito di De Amicis se Guido Rey nel 1910 varcò la soglia dell’universo dolomitico e, due anni dopo, fece conoscenza con le Pale di San Martino. Le esperienze vissute in queste due “campagne alpinistiche” andranno a costituire una parte rilevante della seconda importante opera letteraria di Rey: quell’“Alpinismo acrobatico” che, edito nel 1914, tracciò il profilo di un alpinismo dai caratteri innovativi rispetto a quelli tradizionali delle Alpi Occidentali.
Pronubi dell’incontro con le Pale furono due glorie dell’alpinismo dolomitico: Michele Bettega e Bortolo Zagonel. Nel loro lunghissimo curriculum alpinistico non possiamo dimenticare che nel 1901 avevano guidato Beatrice Tomasson lungo la prima via tracciata sulla Sud della Marmolada.
Zagonel era nel pieno della maturità (aveva 44 anni) e stando al ritratto che ne traccia Rey, “pare tratto fuori da un macigno, tanto è saldo e massiccio e ha un volto impastato di bontà e di astuzia”. Bettega era più avanti negli anni (59) e il suo aspetto non faceva rimpiangere a Rey la sua guida valdostana:
… nel vedermi davanti la figura di Michele Bettega ebbi per un momento l’illusione che quel volto riarso, dalle rughe energiche, dalla grigia barba incolta, dall’occhio vago che guarda lontano, io l’avessi trovato altre volte in qualche mia avventura, non sapevo bene né quando né dove, se presso una fonte in un chiaro mattino mentre sbocconcellava il primo pane della salita, o la sera, nella scarsa luce di un rifugio, intento a fumare la pipa del riposo…
Il programma dei due torinesi è ambizioso: scalare la Pala per la via della cresta Ovest, aperta quattordici anni prima da Oskar Schuster con Tavernaro e lo stesso Zagonel.
“Si tratta di una interessante e bella scalata su roccia buona – si legge sulla guida di Lucio de Franceschi – salita un tempo abbastanza di frequente e ora quasi dimenticata”. La via, come molte di quel tempo, segue un lungo camino che incide la cresta; pertanto:
Si traversa a destra fino al camino che si segue interamente, arrivando presso un evidente intaglio. Si prosegue per c. 200 m con bella arrampicata lungo paretine interrotte da caminetti, fin sotto una gialla parete dove la cresta diviene impraticabile. Si traversa allora a destra (anche abbassandosi un po’) per c. 40 m raggiungendo e seguendo un canalone tenendosi un po’ a sinistra, fin sotto uno strapiombo.
Qui si presenta il passaggio più difficile:
Si effettua una breve traversata a destra (IV) fino all’inizio di un camino. Lo si risale interamente e quando si allarga a canalone lo si abbandona per salire sulla sinistra lungo paretine e caminetti fino a raggiungere la cresta NW… [L. De Franceschi, Pale di S. Martino Ovest, Guida dei monti d’Italia, Club Alpino Italiano]
Questa è una descrizione della via che potremmo definire “tecnica” se vi fosse la necessità di distinguerla da altre forme di descrizione; se non fosse che questo è l’unico “registro” adottato nell’attuale letteratura alpinistica. Non sarà quindi inutile andare a rileggere le righe che Guido Rey dedica alla scalata, cercando di distaccarsi dai condizionamenti culturali che ci portano a condannare come “retorica” la descrizione di un viaggio che è, prima che tecnico, culturale ed estetico.
Prima di tutto, lo stato emozionale del candidato:
… Vorrei fare di questa salita un atto supremo di amore verso la bellezza del monte, foggiarla de’ miei sforzi appassionati, animarla delle mie aspirazioni più pure. E credo di essere in uno stato raro, quasi perfetto, per affrontarla e gustarla; conservo intatta, malgrado gli anni, l’ingenua paura di chi vede per la prima volta il pericolo né sa come l’animo suo si comporti e tuttavia trovo nelle mie forze nuovamente provate la coscienza sicura che esse non falliranno al dovere; é già in me la fresca curiosità di chi affronta la sua prima salita e già mi si agita in cuore la passione disperata di chi pensi che può essere l’ultima… Oggi sono in me il fervore di un neofita e la gravità serena di un vecchio sacerdote.
E poi la montagna:
Nessuna vetta delle Alpi è atta a suscitare la commozione estetica più di questa che delle sue mirabili sorelle di corallo possiede le tipiche forme e le esalta in una perfezione di nobiltà e di ardimento. Io credo che un alpinista il quale voglia prendere commiato dalla montagna e recar seco un incancellabile, supremo ricordo della bellezza austera che è stata amore di tutta la sua vita, dovrebbe compiere su questo monte l’ultima sua ascensione.
E si presenta il problema di superare il mauvais pas, quello che consente di raggiungere sulla destra il camino in cui è scomparso Zagonel:
In quell’istante decisivo qualcosa di straordinario avviene attorno ed entro di me: scompare il monte, si oscura il cielo, un’ombra profonda mi ha avvolto all’improvviso mentre un lampo di luce prodigiosa sembra rischiarare tutto l’interno dell’essere mio; ma non appena ho toccato l’altra sponda e, passato il pericolo, distacco il volto dal muro, l’ombra si è dileguata, il monte e il cielo sono quelli di prima; dell’interna luce non rimane che una pallida traccia forse nello stupore degli occhi e nel sorriso sconvolto che esce a fior di labbra…
Raggiungono la calotta sommitale:
Ahimé! Anche questa salita ha un termine come tutte le cose belle della vita; istintivamente abbiamo accresciuto la rapidità dell’andare e con piedi e mani ci arrampichiamo impazienti sospinti dall’insano desiderio di finire…
E infine la vetta:
Ma io perché tremo stringendo le mani all’amico e le trattengo tra le mie come se questo debba essere un ultimo saluto?… Ma è breve il cammino della vita; sovrasta l’anno fatale in cui l’appressarsi della bella stagione non segnerà più l’ansie segrete e care dei progetti arditi e la periodica partenza verso l’ignoto. Corda e sacco e piccozza rimarranno appese al muro come un trofeo d’armi antiche…
É ormai tempo di avviarsi alla discesa:
Il nostro viaggio è finito. Tra poco abbandoneremo questa rupe sulla quale ci sentimmo per breve ora liberi e possenti; tornati al basso, ritroveremo l’umile realtà della vita. Perché dunque affrettarci alla discesa?… Sostiamo un altro poco, Ugo! É tanto bello il riposare sulla vetta e, per alcuni attimi della vita, tra le nubi, sognare! [G. Rey, Alpinismo acrobatico, Viglongo, Torino]
Disgraziatamente, Guido Rey deve la sua fama presso il grosso degli iscritti al CAI ad una frase, tratta proprio da Alpinismo Acrobatico, che veniva riportata sulla tessera sociale (Io credetti, e credo, la lotta coll’Alpe utile come il lavoro, nobile come un’arte, bella come una fede) che, avulsa dal contesto, acquista un’intollerabile sapore retorico.
In realtà, per stabilire che cosa sia “retorico”, nell’accezione spregiativa, sono necessarie tre cose: un testo (e questo è ovvio) e due contesti culturali: quello in cui affonda le radici il testo e quello che è sistema di riferimento per il lettore. Può accadere che il riferimento culturale del lettore odierno sia molto più povero di quello che ha dato origine al testo. In tal caso, questi è culturalmente inadeguato a cogliere i pensieri e i sentimenti dello scrittore, ed è da questa circostanza che scaturisce il giudizio di “retorica”. Del resto basta andare a rileggere poche righe di Leslie Stephen in “The Peaks of Primiero” in cui descrive il suo arrivo nella conca Pradidali per rendersi conto della intensa emozione suscitata in lui da un tale ambiente.
In quel momento paragonai la catena che si stendeva davanti a me ad una mostruosa scogliera che si spinge verso il mare, con un faro singolarmente audace eretto alla sua estremità… Forse una più adeguata analogia si potrebbe trovare con la testa di un drago disteso in tutta la sua lunghezza e dotato di una coppia di corni ricurvi come quelli dei rinoceronti. Un mostro ricoperto di strane escrescenze, spine e protuberanze che sporgono dalla sua corazza di pietra… [da L. Stephen, Il terreno di gioco dell’Europa, Vivalda, Milano]
Il fatto che l’ordinario odierno visitatore dell’omonimo rifugio sia intrinsecamente incapace di condividere la sindrome di Stendhal prodottasi in Stephen al cospetto di tanta bellezza, testimonia solo di un drammatico impoverimento culturale o del fatto che ampie regioni del sentimento siano sensibili a lunghezze d’onda di minore altezza.
I pionieri inglesi, per i quali lo scalare i monti doveva avere una giustificazione scientifica, scoprirono ben presto che l’essenza dell’impresa era invece quella di un viaggio alla conoscenza della propria interiorità. Tra i primi a sostenere apertamente questa interpretazione dell’alpinismo fu Leslie Stephen; presso di noi fu Guido Rey a descrivere magistralmente la “commozione estetica” come essenza dell’esperienza alpinistica.
La ritroviamo in un autore (lui avrebbe respinto questa qualifica) che non è certo imputabile di “retorica”. Giusto Gervasutti descrive una salita solitaria su una vetta dolomitica e l’esperienza vissuta nel superamento – disperato – di un masso che ostruiva il camino per cui saliva:
… Riuscii per un attimo a tenermi aderente con il mento, e in quell’attimo a girare una mano sulla palma. Appoggiandomi per aderenza su quella mano mi sollevai lentamente e con un ultimo sforzo mi trovai di colpo sopra il blocco. Mi distesi esausto.
Quando il tremito provocato dalla reazione nervosa cominciò a cessare, mi sedetti e guardai verso la valle. Tutto era come prima. Nell’immobilità dell’aria niente che avvertisse la mia presenza. La montagna grigia e indifferente. La valle in fondo verde e tranquilla… Ero io, soltanto io che avevo cercato l’avvenimento, che lo avevo creato, che lo avevo forzato. Tutto quello che mi circondava immobile e fermo era assente. [da G. Gervasutti, Il fortissimo, Melograno, Milano]
Nulla è stato scritto di più intenso e profondo sull’esperienza alpinistica.
5 commento/i dai lettori
Partecipa alla discussioneGuido Rey, sul sentiero al Colle del Teodulo, incontra A.F. Mummery e non Whymper…
Ringrazio gli amici che mi fanno sentire meno solo nella sensibilità verso questi temi. Non vedo con favore l’accusa sbrigativa di “retorica” rivolta alla poetica che ha caratterizzato l’alpinismo fino alla metà del secolo scorso. La retorica (concetto che muta con i tempi e i luoghi) è la linfa di cui si alimenta – anche attualmente – l’attività culturale che va sotto il nome di “alpinismo”. Tutti i grandi movimenti collettivi hanno bisogno di una propria retorica condivisa, la cui validità si misura solo in base ai risultati prodotti, non sulla resilienza delle motivazioni ideali. A monte (espressione quanto mai indovinata), a monte del grande alpinismo inglese della seconda metà dell’800, più che il bisogno di “fede sperimentale” e di “conoscenza scientifica”, vi era la volontà di affermazione imperialistica – e se n’era ben reso conto John Ruskin che accusava i suoi connazionali di aver trasformato i monti in “pali da cuccagna”-; tuttavia, i gentlemen inglesi hanno dato origine ad una radicale rivoluzione nel modo di intendere il rapporto con la natura. Bisogna essere molto cauti nel muovere l’accusa di “retorica” (in senso deteriore), perché può accadere che derivi da una limitata conoscenza della temperie culturale a cui si ispiravano alpinismi del passato. Arturo Andreoletti fece la prima ripetizione italiana della Leuchs al Cimon della Pala (con guida) e ne diede una descrizione estesa e accurata e appassionata; Micheluzzi scrisse sì e no una paginetta sulla sua impresa sulla Sud della Marmolada. Atteggiamenti che più diversi non potrebbero essere, anche se separati solo da una ventina d’anni. E tuttavia, anche il silenzio è una forma della retorica.
All’interno dell’Alpinismo ci sono e ci sono stati diversi movimenti che hanno prodotto diverse retoriche. Ledo si è soffermato sulla “retorica della poetica” che è arrivata fino alla metà del 900.
Quali altre retoriche ci sono? Chiedo aiuto a Ledo e agli altri lettori su questo tema.
Io intravedo “la retorica della conquista “che ha caratterizzato l’alpinismo europeo ed extra-europeo fino agli anni… ma non sono in grado di identificare bene una data di inizio e di fine? Mentre ho ben chiaro la retorica del Nuovo Mattino ed movimento ad essa legato.
Articolo molto interessante.
Mi è piaciuto molto il riferimento alla sindrome di Stendhal collocata in ambito “montagna” che ritrovo sia in alcuni scritti citati da Ledo Stefanini ma soprattutto in altri autori-alpinisti decisamente meno “retorici” quali Reinhard Karl.
Interessante anche il riferimento alla retorica su cui ho una posizione diversa da Ledo: francamente trovo molto retorica la disgraziatamente famosa frase della “lotta con l’alpe” che proprio non sopporto anche se inserita nel contesto culturale-letterario dell’epoca. Io la eliminerei dalla tessera CAI.
Si anche Giusto Gervasutti, nella mia sensibilità, mi sembra retorico, elitario e da leggere e conoscere solo per contrapporsi a questo stile, a questo pensiero, a questo approccio.
Personalmente trovo molto utile e di grande valenza il fatto di conoscere, leggere e divulgare la storia, famosa o ancora poco conosciuta, dell’alpinismo. La grande sfida a mio avviso sta nel cercare di contestualizzarla (accettarla, criticarla o rifiutarla) e metterla in relazione alla vita e ai pensieri di chi va oggi in montagna.
Grazie per avermi fatto pensare a questi aspetti in un sabato mattina nebbioso e bloccato in casa dopo un piccolo intervento al menisco!
Massimo
Personaggi e circostanze di vite non comuni, descritte in modo coinvolgente, che inevitabilmente ci pongono domande sul nostro rapporto con la Montagna, grazie.