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E’ uscita in questi giorni nelle librerie la nuova guida di Manolo “In Bilico… tra le falesie di Primiero”, una pubblicazione realizzata a quattro mani, in collaborazione con sua moglie Cristina Zorzi.

[] Manolo mi mostra la sua guida con un entusiasmo inaspettato, ha gli occhi che brillano come avesse appena liberato una nuova via. Accanto a lui c’è Cristina che interviene, spiega e corregge il marito in alcune dimenticanze. Per noi è l’occasione per conoscere questa nuova pubblicazione e per un breve tuffo nel passato e nel presente di un mito dell’arrampicata.

In Bilico è il titolo che avete dato a questa nuova guida. Ma cosa significa?
Il Bilico è una nuova falesia, si trova fra la val Canali e la val Pradidali, sotto l’Ostio. E’ uno straordinario blocco di roccia gialla e squadrata alla sommità di un ghiaione, un masso “errante”, destabilizzante, in bilico su tutto. Proprio come mi sono sentito io nel tentativo di raccontare questi luoghi: in bilico fra gli appigli e le storie che li accompagnano.

Manolo sul Bilico

Manolo sul Bilico

Manolo, com’è nata questa guida?
Quando nel 1998 feci la guida “Arrampicare nel Primiero” mi presi l’impegno di ripetere praticamente tutte le vie descritte, volevo rendermi conto personalmente di quello che andavo a scrivere. Una volta completata mi accorsi che averi già dovuto aggiornarla, infatti stavano nascendo nuove vie e altre falesie erano state scoperte. Dopo qualche anno decisi di raccogliere quanto di nuovo veniva fatto e incominciai ad inserire i dati nel mio computer ma tutto andò perso e allora passò ancora un bel po’ di tempo prima di trovare la voglia di ricominciare.

Allora, rispetto alla precedente edizione, cosa possiamo trovare di nuovo?
Molte nuove vie. Inoltre ci sono nuovi settori e nuove falesie. La guida ora è divisa in 9 ambiti e 53 settori. Ma non ci sono solo le descrizioni tecniche delle vie e dei loro accessi. Ho voluto inserire anche dei brevi racconti che ricostruiscono la storia delle diverse falesie, per ricordare chi le ha scoperte e chiodate (un bel disegno richiama il manifesto di un film di Sergio Leone con il “duello all’ultimo spit”: ci sono due scalatori con il trapano in mano, schiena contro schiena e attorno a loro i nomi di tutti i chiodatori, ndr). In tutte le vie è riportato l’anno e il nome di chi è stato per primo a chiodarla, insomma di chi ha fatto la vera fatica. In una scheda invece ho inserito i nomi di chi ha liberato sportivamente le 30 vie più difficili, in rotpunkt. Oltre a questo abbiamo inserito una descrizione storica che abbiamo chiesto di scrivere a degli esperti.

E le vie come le avete descritte?
Abbiamo scelto di dare le informazioni essenziali, senza esagerare nei simboli e nelle descrizioni. Ci sembrava giusto lasciare un po’ di sorpresa. Se qualcuno vuole salire on sigh (a vista, ndr) qui lo può fare davvero. In giro ci sono fin troppe guide e video super dettagliati che descrivono ogni tiro, ogni metro: “arrampicata tecnica su liste verticali all’inizio, poi passaggio chiave su mono dito destro e uscita su grosse e facili prese in continuità, ecc.”.

Manolo con Paolo Loss (Pol), 1980

Manolo con Paolo Loss (Pol), 1980

Anche il corredo fotografico è di notevole interesse
La prima edizione non aveva foto, in questa invece ci sono anche foto storiche, come l’unica foto che esiste quando ho aperto la lucertola (Lucertola Schizofrenica è una via di 200 metri sulla falesia del Totoga, aperta nel 1979 con 9 chiodi e 3 stopper, soste comprese, con del 6c molto strano, ndr). Poi le foto con Roberto Bassi, con Stefan Glowacz, quelle del Mattino dei Maghi (il primo 8a in Europa nel 1981, aperto con due 2 chiodi a pressione, 1 cuneo e 2 chiodi normali, via ancora irripetuta, ndr). Attraverso le foto più vecchie è possibile rendersi conto del modo in cui si andava ad arrampicare, dell’abbigliamento che si usava e che racconta quasi da solo l’ambiente di quegli anni. E’ una guida che parte dal 1979, quando per la prima volta è stata aperta una falesia di arrampicata sportiva nel Primiero, sul Totoga (mi indica con la mano la falesia che si vede dalla finestra di casa sua, in fondo alla valle, ndr). Molte informazioni le ho raccolte chiedendo direttamente a chi per primo ha aperto le vie, a loro ho anche chiesto di raccontare una piccola storia o un aneddoto della falesia (cosa che è risultata ancora più difficile della valutazione degli itinerari).

Negli ultimi anni avverti un cambiamento nel modo e negli interessi di chi frequenta le falesie del Primiero?
Le falesie più classiche, come la Totoga, sono frequentate da pochissima gente. Probabilmente perché è un po’ lontana e anche poco gratificante per chi vuole collezionare risultati facili con i suoi muri verticali fuori moda. Anche se rimane un luogo che continua, almeno per me, ad essere interessante, oltre che per la sua storia, per quello che può insegnarti. C’è da dire che la maggior parte dell’arrampicata in valle si sviluppa su muri verticali o leggermente strapiombanti, dove l’arrampicata è più scabrosa, più aleatoria e fa più male alla testa e alla pelle che da altre parti. Non possiamo accostare questo tipo di falesie a quelle di Arco o Finale o ad altri siti francesi e spagnoli. Questo è quello che abbiamo. Però se ci fosse davvero la volontà di sostenere l’arrampicata sportiva si potrebbero migliorare ancora molto. E’ da dire che tutte le falesie sono state attrezzate da pochissime persone che non hanno mai avuto alcuna sovvenzione economica, nemmeno per un chiodo. Invece, anche sotto il profilo turistico, potrebbe essere una buona opportunità. C’è sempre più gente da fuori, interessata, curiosa, che vorrebbe provare su nuove falesie. Anche perché qui ora ci sono tante vie ed anche molto importanti. Forse una nota dolente è proprio questa, qui non ci sono conformazioni rocciose che permettano di arrampicare sul facile, bisogna già avere un livello abbastanza alto. Lavorando e cercando un po’ si potrebbero però trovare dei siti più facili, adatti a tutta la famiglia. Non è facile, però è possibile.

A proposito di “valorizzazione” come giudichi la tendenza d’intervenire sulle vie classiche per renderle più sicure?
Sono assolutamente contrario su come hanno agito qui in zona alcune guide alpine. Nel senso che io non vorrei essere ricordato per aver messo degli spit sulle vie classiche. La montagna offre una grande opportunità di vivere e creare le proprie esperienze. Saper fare una sosta è una cosa necessaria se si va in montagna. In certi ambienti, come sul Sella, vicino alla strada, sono nate vie con soste sicure e attrezzate e lì va bene così. Ma snaturare le vie classiche, come, la Frish, la Castiglioni e lo spigolo del Velo, credo sia un po’ come togliergli l’anima o se vogliamo anche una mancanza di rispetto verso i primi salitori.
La montagna non è per tutti. Se una persona non è in grado di affrontare certe difficoltà o certe situazioni è meglio che si fermi al rifugio, rifletta e si armi di pazienza e umiltà e inizi un percorso diverso che lo porti lentamente a costruirsi quella sicurezza assolutamente necessaria per comprendere i propri limiti, cosa indispensabile in un ambiente severo come la montagna e mi allargherei ormai anche a quello di molte falesie. La montagna è fatica, è pericolo e per potersela permettere c’è bisogno di una dose di esperienza che non si può fare in un giorno. E non si può acquistare in un negozio: “Scusi mi vende 50 euro di esperienza?”.
Inoltre pensiamo alle generazioni future che, senza andare molto lontano, potranno trovare nelle Dolomiti e nelle Pale ancora pareti e vie pulite, autentiche, dove fare le loro esperienze.

Manolo e Adam Ondra

Manolo e Adam Ondra

Come vedi i giovani arrampicatori di oggi?
I ragazzi oggi sono figli del loro tempo, come lo sono stato io ed è difficile trasferirgli la necessaria attenzione che richiede questa attività, soprattutto se la tua immagine gli ricorda i rischi peggiori. Non tutti purtroppo abbiamo la fortuna di raccontarlo ma almeno il dovere di farlo. Oggi esci da una sala boulder e sei fortissimo, ma questo non basta. L’arrampicata rimane un’attività dove è assolutamente necessario rimanere concentrati quasi in modo maniacale, basta un errore tuo o del tuo compagno ed è finita. C’è poi chi non andrà mai su un sentiero e nemmeno in montagna. Però, sempre più vedo movimenti “underground” di giovani che fanno un alpinismo importante come: Hansjörg Auer, David Lama, Nicolas Favresse, ecc. che affrontano in un modo diverso le grandi pareti e sulla scia di questi fuori classe, anche nel nostro paese, ci sono giovani scalatori che si stanno proponendo . Non c’è più la massa dei miei tempi, ma forse va bene così. Oggi chi fa un certo tipo di alpinismo, magari è partito dalle competizioni e si è stancato o ha terminato un certo periodo della sua vita e inizia ad apprezzare la parte avventurosa, di esplorazione, più creativa, più matura. Vedi Adam Ondra, uno dei più forti arrampicatori del mondo, adesso trascorrerà tutta l’estate in Norvegia. Ha scoperto la natura e l’ambiente e ne è affascinato. Ed è bello che persone con livelli tecnici così alti abbiano questi interessi e questa polivalenza. Porteranno sicuramente qualcosa di nuovo.

E decisioni di questo tipo, secondo te, sono frutto di proprie scelte di vita, oppure sono influenzate da altri fattori?
Alcune sono delle vere e proprie scelte ma in generale vedo una grande mancanza di spirito critico e questo crea un’instabilità di base anche nella capacità di prendere e assumere responsabilità e decisioni. Troppo condizionati da una società che impone anche il modo di apparire, quasi incapaci e intimoriti di esprimerci in un modo diverso e più libero.

In tema di comunicazione, nell’arrampicata e nell’alpinismo, il ruolo dei webmedia è sempre più vasto e variegato. Che giudizio ne dai?
Internet è uno strumento fantastico e ha in qualche modo sconvolto anche il modo di comunicare nell’alpinismo e nella scalata. Non molti anni fa, la prima cosa che ritenevi superflua e inutile era proprio la macchina fotografica. Adesso la prima cosa che si mettono sul casco o nello zaino è la cinepresa. Un modo di comunicare e raccontare molto diverso ma che naturalmente ha anche molti aspetti su cui riflettere. Su internet puoi attingere rapidamente a un numero strabiliante d’informazioni ma anche di cazzate, dipende come sai gestirle. Spesso ho la sensazione che manchi la voglia di approfondire, ma questa sembra ormai essere diventata una cosa noiosa. C’è un grande cambiamento culturale ma anche un forte impoverimento. Molta di questa accelerazione non lascia nulla, solo un copia e incolla. Comunque non puoi fare una grande esperienza in montagna rimanendo seduto davanti al pc e nemmeno leggendo un milione di guide. L’informazione vera, alla fine rimane una cosa difficile e faticosa ma importante e necessita molto impegno da entrambe le parti, in un mondo dove districarsi fra la disinformazione è sempre più difficile.

Verdon: Leonardo Di Marino, Heinz Mariacher, Manolo, Luisa Iovane e Diego Di Marino

Verdon: Leonardo Di Marino, Heinz Mariacher, Manolo, Luisa Iovane e Diego Di Marino

Gettando lo sguardo all’indietro, hai qualche rimpianto come uomo e come arrampicatore?
Non ho rimpianti, come Fabrizio De Andrè “Quello che non ho è quello che non mi manca”. E’ certo che come arrampicatore potevo fare di più, molto di più. Non sono nato in un periodo in cui da ragazzino potevo andare ad arrampicare in una palestra. Durante l’estate a 12 anni sono andato a Finale Ligure, non ad arrampicare ma a lavare bicchieri fino alle due di notte. A 13 anni ero a Venezia a fare il cameriere e a 15 in Germania a lavorare in una fabbrica, altro che arrampicare. E prima di decidere che l’arrampicata potesse diventare la mia vita ci ho pensato un sacco di volte. Poi mi piaceva così tanto e mi sono detto provo. Nel frattempo lavoravo 8-9 mesi all’anno in giro per l’Italia a buttare giù sassi (lavori di disgaggio, ndr), 13-14 ore al giorno perché lavoravamo a cottimo. Quando sono andato in Verdon la prima volta ho lavorato 15 giorni in Friuli per pagarmi il viaggio. Se mi parli di rimpianti, forse ho perso gli anni migliori dal punto di vista “più sportivo” ed è stato un percorso difficile a volte doloroso ma anche molto interessante ed educativo.

Manolo, Riccardo Cassin con la moglie e Mirella Tenderini

Manolo, Riccardo Cassin con la moglie e Mirella Tenderini

Dici di aver perso gli anni migliori ma fin da giovanissimo sei stato fra i grandi dell’arrampicata e fra i precursori dell’arrampicata sportiva. Forse perché eri privo di condizionamenti?
La cosa straordinaria è che, senza nessun contatto esterno, vivendo come in una bolla, lontano da tutti, ho cambiato tutto. Magari in qualche parte del mondo, in America, in Inghilterra avvenivano contemporaneamente le stesse cose. Per me Bonatti e Cassin potevano davvero essere due ciclisti. Poi, poco a poco, ho imparato a conoscerli, soprattutto attraverso le loro vie e le loro montagne. E poi c’era una mentalità diversa. Quando sono arrivato ad arrampicare su certe difficoltà, le gare non mi interessavano per nulla. Mi piaceva vivere quei momenti con la massima libertà. Ma qui si entra in un discorso più filosofico.

Libertà anche dagli sponsor, senza mai troppe dipendenze?
Ho sempre cercato di non essere preso in quell’ingranaggio che prima o poi mi avrebbe creato degli obblighi ai quali non volevo sottostare. Vivere la mia razione di libertà in montagna, senza costrizioni era importante. E mi è andata bene, non solo perché sono riuscito a sopravvivere ma soprattutto per quella forma di equilibrio che la montagna mi ha insegnato a trovare anche fra le cose della vita.

Manolo sulla Cassin, spigolo sud-est della Torre Trieste, 1977

Manolo sulla Cassin, spigolo sud-est della Torre Trieste, 1977

Cioè cosa vuoi dire?
Voglio dire che sono stato costretto a prendermi delle responsabilità fin da giovane, con una mia famiglia. A 17-18 anni sono diventato padre è non è stato facile. Non ho girato il mondo come forse avrei voluto fare e ho fatto una vita in base a queste responsabilità. Sono rimasto qui e mi sono inventato anche questi posti (si riferisce alle falesie del Primiero, ndr). Ci sono stati dei momenti della vita in cui ho scalato moltissimo, con intensità, dedicando alla montagna e alla scalata parecchio del mio tempo, raggiungendo risultati importanti. Infatti già nel 1979 ero passato in libera sulla Biasin-Scalet al Sass Maor (7b/c) o sulla Carlesso alla Torre Trieste con solo 9 chiodi di protezione, praticamente un chiodo ogni cento metri. E questo succedeva prima di scoprire veramente la falesia. Poi però, tutto quello che volevo scoprire in montagna mi sembrava di averlo fatto e ho deciso di dedicarmi alle falesie, pareti nuove che altri non avevano ancora intuito. Ed è stato l’inizio di una nuova avventura, piena di energia e di entusiasmo e nei primi tempi, prima dell’accettazione dello spit, anche di grandi pericoli. Poi ho accettato i chiodi a pressione e si sono aperte altre possibilità: potevo andare ad arrampicare senza morire. Era un’altra dimensione e dopo il breve ma intensissimo periodo di Arco, Erto e Totoga molto è di nuovo cambiato.

Manolo e Roberto Bassi in Verdon durante l'apertura della via Miss Canyon (primi anni '80)

Manolo e Roberto Bassi in Verdon durante l’apertura della via Miss Canyon (primi anni ’80)

Un’altra dimensione anche in virtù di un costante allenamento?
Quando ho iniziato a scalare la parola “allenamento” era bandita dal nostro gruppo. Il più fervido sostenitore di questa teoria era il Bob (Roberto De Bortoli, ndr), asserendo che così allora “iera boni tutti”. Ma io, dopo un po’, ho iniziato a dubitare, soprattutto quando le nostre incursioni dolomitiche finivano ancor prima di iniziare e sempre all’ultimo bar. Ripensandoci mi è quasi difficile comprendere come sia riuscito a realizzare cose così difficili senza nessun allenamento, se non quello fortemente alcoolico ma questo non può che confermare che si poteva fare molto di più. Forse mi sono solo trovato al posto giusto nel momento giusto con un po’ di talento e molta fantasia che mi ha permesso, insieme a una buona dose di fortuna, di sopravvivere e poi di sconvolgere prima di altri un modo di pensare e di scalare. Sicuramente alcuni compagni di avventure come Diego Dalla Rosa, Piero Valmassoi e Gigi Dal Pozzo sono stati molto importanti in quella fase iniziale, dove anche solo riuscire a sopravvivere era già una grande impresa. Ma per raggiungere certi risultati l’allenamento è indispensabile, il talento non basta e da solo si spegne e si perde. E’ un’attitudine mentale diversa che include anche quella forma di disciplina che forse non avrei mai accettato se non fosse stata accompagnata da una grande passione. Poi passa il tempo e tutto diventa più difficile, fino a rendere a volte inutile o deleterio anche un allenamento. Entrano in gioco altre cose, l’inevitabile calo di forza, la mancanza di motivazioni, gli acciacchi, ecc. Le ultime difficili vie che ho liberato mi hanno impegnato moltissimo, sia sul piano fisico che mentale, in un modo quasi eccessivo. E’ diventata un’esagerata alchimia gestire infortuni, acciacchi e recuperi frustranti a seguito anche di brevi allenamenti. Ma da molto tempo, anche se non sembra, ho già incominciato ad accontentarmi in molte cose, soprattutto nell’alpinismo. Fortunatamente ad accettare l’inevitabile ci sono già riuscito molto tempo fa con un sorriso.

Manolo sulla via Roby Present (ph © Paolo Calzà)

Manolo sulla via Roby Present (ph © Paolo Calzà)

Quali sono le falesie del Primiero che più di altre hanno lascito il segno nella tua vita di scalatore?
A parte la Totoga, che è l’inizio di tutto, importante è stata anche la Val Noana, dove nel 91-92 ho liberato The Dream (8c) e negli ultimissimi anni ancora altre vie molto difficili (Stramonio 8c, Eroi fragili 8c e lo scorso anno Roby Present con difficoltà di 9a, ndr). La via “sportiva” più difficile della mia carriera credo rimanga Eternit al Baule, alla quale onestamente non saprei ancora dare un grado preciso. E’ un’arrampicata che mi è molto congeniale, eppure mi ha impegnato moltissimo. Se devo fare un paragone: è decisamente più difficile di Bimbaluna in Svizzera valutata 9a+ e che detto francamente mi sembra esagerato. Il Baule è stato un luogo importante, dove ho respirato momenti davvero speciali. E’ uno di quei posti che possono essere ovunque, ma ci deve essere qualcuno che li trova, che li cura. Non è una falesia enorme, anzi è piccola ma molto particolare come il luogo dove si trova. E questo ti fa riflettere sul fatto che certe pareti nascono ed esistono solo perché ci sono uomini che le cercano, le vedono e le scalano. Forse è proprio perché le ho vissute intensamente che ho sentito il bisogno di raccontarle in un documentario e in una guida. Un tentativo di raccogliere e trasmettere una parte della nostra storia, perché non venga dimenticata e possa essere d’aiuto alle nuove generazioni.

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CON DEDICA AUTOGRAFA DI MANOLO

Teddy Soppelsa autore del post

Teddy Soppelsa | Autore di pubblicazioni su montagna, alpinismo e ambiente, componente cdr de Le Dolomiti Bellunesi, socio GISM, fondatore del blog-magazine altitudini.it.

4 commento/i dai lettori

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  1. Pingback: SCRITTURA GEOGRAFICA 00 | Esposizioni in Spazio Reale | VIA SCALET-BETTEGA al Sass d’Ortiga | Fondamenti per un’interpretazione artistica dell’alpinismo | Casa di Cultura Contemporanea 20 Set, 2014

    […] a Manolo – per sciogliere il punto chiave della mia suggestione – nell’intervista rilasciata per presentare In Bilico (Altitudini.it, a cura di Teddy Soppelsa), afferma: «La montagna non è per tutti». Io […] – http://casacibernetica.wordpress.com/2013/08/29/scrittura-geografica-00-esposizioni-in-spazio-reale-via-scalet/

  2. Chiarofiume
    chiarofiume il29 agosto 2013

    Il link corretto del pingback in data di oggi è http://casacibernetica.wordpress.com/2013/08/29/scrittura-geografica-00-esposizioni-in-spazio-reale-via-scalet/ ….
    Il post su “Scrittura Geografica …”, che cita Manolo, merita un approfondimento, considerato che viviamo tempi più propensi alle “piattitudini” che alle “altitudini” ..
    Seguirà un chiarimento … prima o poi

  3. Pingback: SCRITTURA GEOGRAFICA 00 | Esposizioni in Spazio Reale | VIA SCALET-BETTEGA al Sass d’Ortiga | Fondamenti per un’interpretazione artistica dell’alpinismo | Casa di Cultura Contemporanea 29 Ago, 2013

    […] a Manolo – per sciogliere il punto chiave della mia suggestione – nell’intervista rilasciata per presentare In Bilico (Altitudini.it, a cura di Teddy Soppelsa), afferma: «La montagna non è per tutti». Io […]

  4. casa rural rioja il26 luglio 2013

    Manolo, in bilico tra le falesie di Primiero | racconta e discute di montagna e alpinismo, ¿Puedes aportar más?, me resulta insterense esta informacion. Saludos.

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