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Questo articolo contiene spoiler, cioè delle informazioni che potrebbero svelare i punti salienti della trama di un film o di un libro, ad esempio se non avete letto “Le otto montagne” di Paolo Cognetti andate oltre.

Cammino verso la Val Canzoi, innevata e stupenda, con Teddy che mi fa da guida. Non fa per nulla freddo e passando tra leggere tracce nel bosco piove come fosse un pomeriggio d’autunno.

«Che ne pensi del libro di Cognetti?[1]», mi fa lui. «Non mi piace».

Mi metto in fila alcuni segni, totem, frecce luminose per dire meglio. Possiamo partire dall’inarrivabile successo del clone di Mauro Corona che, vestito da giovane lupetto montano[2], passa da una tivu ad un convegno riverito e divertito per i suoi aforismi alcoolici e poi attraversare, tra le tante banalizzazioni alpine, la proposta istituzionale rivolta ai giovani che vogliono, dopo un molto breve corso di formazione, vivere una estate a fianco dell’Ultimo Pastore[3] e “svegliarsi all’alba, prendersi cura degli animali, fare il fieno e partire per la transumanza gestendo” nel frattempo “il rapporto tra pastori e lupi[4] per approdare alle belle camicie dolce&gabbana del cattivo-ma-roccioso-montanaro Marco Paolini in uno dei più visti film di simil-montagna.

Tutto questo e molto altro ancora ci scodella, lì, proprio nel centro della nostra città, il rinnovatissimo concetto del Buon Selvaggio. Ecco, questa sembra essere l’idea guida, il mainstream, come si usa dire oggi, che trascina il montanaro di cartone, ma a grandezza naturale, verso le depilate braccia del cittadino. Il rude omo servadzo, quello di poche parole ma di grande fascino, quello che sbircia le tette ma che poi rivolta con le sue grandi mani generose quantità di letame, è quello che ci piace. L’uomo di montagna che ci conferma, come una delle nostre pagine Facebook più seguite[5], quello che già pensiamo di lui, di lui e della montagna. Il cerbero che merita il nostro hastag, quello che amiamo di più (e ci spaventa di meno). Grezzo ma atletico, ignorante ma saggio, poco pulito ma affascinante è l’uomo che non deve chiedere mai. E’ il montanaro a cui dedichiamo piccoli presepi politici, incontri in biblioteche, spazi in prima pagina, festival, camminate enogastronomiche, corsi universitari. Noi da qua e lui da là. Verrebbe da dire, ribaltando un concetto geografico evidente, noi lassù e lui laggiù. Que vive los montañeses.

«Ma che pensi del libro di Cognetti?» mi ribatte il torrente Caorame. «Non mi piace».

Ci sono dei giovani, qua in città, che amano la montagna. Fanno escursioni nei luoghi della resistenza, piercing e tattoo, calzoni stinti e assolutamente no-logo: durante una loro uscita, conclusa con vino buono e canti, tre di loro, belli, allegri, giovani, alzano un cartello e sopra c’è, a pennarello, “non è la festa degli alpini, fateci un canto di lotta!”[6]. Insomma, niente a che vedere con l’ortodossia del Club/Glub. Cittadini, buona cultura, ecologisti, qualcuno, nonostante la polenta e il capriolo, anche vegano. E amanti delle belle frasi del libro dello scrittore milanese. Nella loro impudenza hanno ugualmente bisogno di avere un bel montanaro-portachiavi da esibire, prima a sè stessi e poi chissà. Come tanti, lì dentro ci hanno messo, loro e noi, prima dell’autore, la nostra icona dipinta. Ma non quella detta sopra, non quella del montanaro così sfigato che non saprà nemmeno salvarsi da sè stesso, non quella del ragazzo del villaggio che aspetta per mesi interi, come un Garrone delle Terre Alte, l’arrivo del giovane cittadino per poter divorare i biscotti come se non ne avesse mai mangiati in vita sua, e nemmeno il piccolo pastore che legge, obbligato, a voce alta Verne e Twain . No, l’icona è la nostra superiorità, certa, ambigua, ancor più liberata in questi tempi di global trumping, la nostra superiorità di cittadino, di abitante della metropoli, di quello che conosce il mondo e che riporta, dopo un viaggio patinato sugli altipiani, una fila di panni di preghiera per la balma. Noi, quelli che sappiamo, per certo e per averlo visto, che l’Himalaya non può assomigliare al Monte Rosa. Noi siamo la modernità, il futuro e quando andiamo in montagna, quando diventiamo neoruralisti (checcavolo di nome), sappiamo bene cosa fare, cosa volere. Vogliamo stare lontani dal traffico e vogliamo arrivare in mezzora all’ospedale, vogliamo poca gente attorno, godere noi, e pochi eletti come noi, di aria buona e paesaggi dipinti da Segantini, vogliamo anche i servizi, la scuola (magari no, che tanto me la faccio da me), vogliamo la posta, il pane fresco, il mango e la papaya, però bio, e se il vicino, quello che c’era lì ben prima di noi, ha il terrazzo in cemento che ci sta proprio male lo butti giù presto[7].

«Va be’, ma come la metti giù dura» mi scuote il Cimonega che appare tra le nubi. «E non ho finito».

C’è un’altra sottotraccia che sembra essere invisibile proprio perché ci appartiene, ahimé. Da un parte il cittadino che sa godere del dono della montagna, appassionarsi dei boschi, dei caprioli che brucano davanti alle baite deserte e dall’altra il Bruno che scia come un cretinetti e che non sa trattenere i soldi tra le mani. Ma c’è dell’altro. Tutto è virilmente maschio. Si, le recensioni parlano di amicizia fortemente maschile (al Bruno non diamo nemmeno la possibilità, tanto gagé, di essere un omosessuale) ma si tratta di vero, sano celodurismo, democratico, di sinistra ma sempre celodurismo. La montagna è solo per gli uomini, quelli con pantaloni di velluto e maglione rosso[8], e le donne, sin dalle prime pagine stiano a leggere in un prato o, al massimo a curare gerani. Pietro non ha tempo per le donne che deve preparare lo zaino per l’Himalaya, però è generoso e regala una delle sue (donne) al Bruno. Donne, cittadine o montanine, fragili, petulanti, comunque sfocate, che si esprimono poco o fuori tempo massimo. “Le Otto Montagne” è la somma chiara, distinta, a matita blu, di quello che sta diventando la montagna e il montanaro per il mondo: teatrino e marionetta dove rappresentare, come un condominio davanti alle piste innevate artificialmente[9], la superiorità invincibile del moderno, democratico e studiato, cittadino.

Bello il Monte Rosa, bella la montagna e queste Otto assomigliano troppo a noi, per questo ci piacciono, perché noi siamo Pietro e non Bruno.

Davide Torri autore del post

Davide Torri | Insegnante di educazione fisica ha trasformato la sua passione per la montagna e per la gente che sopra vi vive in qualcosa di più concreto, Con l'Associazione Gente di Montagna, di cui è il generoso motore da molti anni, ha prodotto ricerche, organizzato convegni, realizzato documentari, progettato spettacoli teatrali, pubblicato libri, ideato filmfestival collaborando con Enti Locali, Agenzie Educative, Università e molte altre Associazioni seguendo il motto di Alex Langer, il principale ispiratore nelle azioni dell'Associazione e di Davide Torri stesso, "costruire ponti". In questo caso tra una valle alpina e l'altra. In Italia e all'estero.

4 commento/i dai lettori

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  1. Adriano il14 marzo 2017

    Boh, io ho capito veramente poco, proverò a rileggere, però di sicuro Cognetti no perché è cittadino e quindi vietato affrontare il tema che è riservato ai veri montanari (quali a sto punto). Corona nemmeno perché è una macchietta e manco il film di Paolini va bene, anche perché scritto da uno di Padova, bassa pianura, fosse almeno pedemontana….. boh.
    A me poi il personaggio di Bruno è piaciuto molto ma purtroppo son di pianura anch’io…..

  2. Roberto il9 marzo 2017

    Articolo molto interessante e che in parte condivido. Ci sarebbero parecchie cose da discutere, e questo è già di per sé un pregio. La prima cosa che mi vien da condividere è la (ovviamente a parer mio) sopravalutazione di Mauro Corona. Per carità, ottimo scrittore, se non fosse per il fatto che da circa venti anni riscrive più o meno lo stesso libro cambiando il titolo. È inoltre vero che ormai è divenuto l’icona di se stesso, in canottiera e bandana in situazioni che lo rendono comico, offrendo una visione da buon selvaggio a cui ormai credono solo quelli che si spalmano l’abbronzante in spiaggia a ferragosto. La seconda parte mi pare invece più problematica. Insomma, che tipo di montanaro vuole l’intervistato? Quello che non va all’ospedale, si cura con le erbe dei prati e a 50 anni è sottoterra? Lasciamo perdere poi le escursioni dei no logo-no global tatuati, non voglio generalizzare, ma nella maggior parte dei casi che ho (ahimè), veduto e vissuto, è gente di cui della montagna non interessa assolutamente nulla se non per ammantarsi di un’aura di alternatività, epopea resistenziale e finta naturalità da riprendere con lo smartphone da 500 euro (ovviamente con la “mela” nascosta dall’adesivo del centro sociale berlinese).

    • Davide Torri il15 marzo 2017

      Infatti (Roberto ed Adriano) il nucleo della riflessione sta proprio nell’idea di montanaro che si è fatta avanti in questi ultimi anni che è fondamentalmente artificiale. Non esiste il montanaro descritto nelle televisioni del pomeriggio, non esiste l’eremita a cui la radio dedica una intervista e, nemmeno, non esiste (ma questo apre una nuova zona di riflessione) l’idea di natura alpina che, dal quinto piano del nostro condominio in zona vigentina, ci siamo proiettati. La città e i cittadini (urbanizzazione e alienazione viaggiano di pari passo senza correttivi sociali) hanno costruito, spesso nel senso della parola, una propria idea di montanaro. E, proprio per la omogenizzazione dei luoghi e dei pensieri, anche il montanaro, quello reale, risulta difficile da riconoscere.

      • roberto il17 marzo 2017

        In effetti è vero, ed è un campo tutto da esplorare. Abito sempre in mezzo ai monti e ultimamente proprio sulle pendici di un monte, ma posso garantire che il concetto di “montanaro” è molto sfuggente. Anche perché, diciamocelo chiaro, non interessa quasi a nessuno, o meglio, come sostiene Torri, ormai la maggior parte delle persone nelle propria percezione ne ha ormai consolidato uno che non sappiamo bene se risponde al reale. Buon spunto di riflessione , comunque.

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