La cosa più bella dell’International Mountain Summit è che è possibile passare una giornata, il Walk Day, camminando sui dolci pendii della Plose con… Hervé Barmasse, per esempio.
Hervé non è solo un grandissimo alpinista – non ci provo nemmeno a descrivere il suo palmares (www.hervebarmasse.com) fatto di ascensioni in solitaria, prime assolute, salite invernali ai quattro angoli del mondo – non è solo figlio d’arte – “avrò fatto con mio padre al massimo dieci salite, non di più” tiene a precisare – ma è anche una persona con cui è bello parlare e che sa interessarsi ai suoi interlocutori. “Non ci sono differenze tra me e voi” dice prima di scattare la foto di gruppo “perché siamo tutti accomunati da un grande amore verso la montagna”.
“Non ci sono differenze tra me e voi” dice prima di scattare la foto di gruppo “perché siamo tutti accomunati da un grande amore verso la montagna”.
Come inviata speciale di altitudini.it ho avuto la possibilità di parlare con lui di esplorazione, di alpinismo di ricerca e del suo concatenamento delle quattro creste del Cervino fatto lo scorso inverno (Salita della Cresta di Furggen, discesa dalla cresta dell’Hornli, traversata sotto la parete nord del Cervino, in vetta per la seconda volta lungo la cresta di Zmutt e infine discesa dalla cresta del Leone con arrivo alla capanna Carrel e discesa finale a Cervinia).
Il monte Rosa, il Cervino: spesso scegli le montagne di casa come terreno per le tue avventure, per le tue esplorazioni. C’è ancora spazio per un alpinismo di ricerca sulle Alpi?
Per prima cosa, è importante dare il giusto significato a al termine “alpinismo di ricerca”: naturalmente, da quando tutto il mondo è stato mappato e il terzo polo – l’Everest – è stato salito, fare questo tipo di alpinismo significa semplicemente andare in posti dove nessun altro è stato prima o andarci in stagioni inconsuete, d’inverno per esempio, o in totale solitudine. Non c’è quindi grande differenza nel fare queste cose in Cina, in Pakistan, in Patagonia o sulle Alpi, ci sono caratteristiche geografiche differenti, certo, ma quello che accomuna un certo tipo di alpinismo è senza dubbio il rischio, perché senza rischio non c’è avventura. E’ un binomio che nell’alpinismo è sempre esistito e penso che sulle Alpi sia ancora possibile praticare questo tipo di attività, muovendosi da soli o magari nelle stagioni più fredde. Detto questo, penso che l’idea della spedizione così come l’abbiamo conosciuta sia morta; ho la fortuna di avere alcune diapositive di mio nonno che andava in Terra del Fuoco con De Agostini a esplorare, a creare nuove mappe, ma questo è un tipo di avventura che non esiste più. Oggi sappiamo che quando andiamo a scalare un ottomila, anche nel caso in cui tentassimo una via nuova, il viaggio è poco più di una gita organizzata. Il pericolo maggiore è forse cadere dalla Karakorum highway con il bus ma, di certo, non c’è più il alcun rischio e alcuno sforzo legato all’organizzazione logistica di un simile viaggio. L’alpinismo di ricerca come lo intendo io non è una questione di adrenalina – non cerco l’adrenalina a tutti costi – è una ricerca dell’avventura e spazio per l’avventura sulle Alpi ce n’è ancora tantissimo.
Messner recentemente raccontava che in Ladakh ci sono ancora tantissime montagne – non necessariamente 8000 – inviolate, dove nessuno è mai salito e si cura di salire, questo tipo di esplorazione ti interessa ancora?
Sì, è vero, e quando vado in spedizione è questo il tipo di alpinismo che ricerco. Ci sono ancora moltissime montagne inviolate, in Ladakh, in Cina o in Karakorum: proprio qui mi è capitato, nel 2006, di salirne una di seimila metri da solo. E’ una bella esperienza, però nel mio percorso di alpinista, negli anni, ho finito per scegliere strade differenti. Riscoprire le Alpi per un alpinista professionista è importante secondo me, anche perché tutti possono confrontarsi con quello che ha fatto, mentre non tutti hanno la possibilità di viaggiare, non tutti hanno gli sponsor. Scalare sulle Alpi è anche un modo per mettersi in gioco: quello che ho fatto è per certi versi a portata di mano, chiunque può andare a vederlo e giudicare. In fondo, scalare sulle Alpi è anche un modo per dire “non ho paura di espormi, non ho paura di dire chi sono e che cosa faccio”. Si è parlato molto di etica dell’alpinismo qui all’IMS e bisogna dire che, spesso, gli alpinisti preferiscono evitare i confronti anche in questo modo, viaggiando lontano dove è più facile che nessuno vada mai a ripetere qualcosa.
Come ti è venuta l’idea di concatenare le quattro creste del Cervino?
Quest’idea è sempre parte di un percorso di ricerca. E’ un itinerario che aveva fatto mio padre, anche se in realtà ho scoperto da poco che prima di lui due guide di Zermatt lo avevano già percorso, pur in un tempo maggiore e poi c’era stato il concatenamento di Kammerlander con un’altra guida Svizzera. Nel suo caso, si trattava soprattutto della ricerca di un record in termini di velocità, perché in estate, su quelle vie, una guida alpina può portare un cliente. Quindi, due persone di pari livello che affrontano questo percorso nella bella stagione minimizzano realmente il rischio, devono solo cercare di andare veloci e anche in questo caso, se si sbaglia qualcosa, si può sempre contare sull’aiuto dell’altra persona. Alpinisticamente, dunque, credo abbia più senso quello che fece mio padre, perché aveva cercato sì la prestazione, ma sempre in solitaria e senza forzare il percorso per farle tutte in salita.
Io mi sono rispecchiato di più in questo tentativo e, soprattutto, ho deciso di farlo durante un inverno estremamente nevoso, un inverno come quelli di un tempo, in cui decidere di muoversi può voler dire trovarsi su creste larghe quindici centimetri, con la neve fino alla vita: non proprio una passeggiata.
Ma l’idea che mi ha guidato è proprio la ricerca dell’avventura, e l’inverno cambia le regole, ti proietta di forza nel mondo del rischio. Nella via normale di discesa svizzera, per esempio, che in estate richiede tre-quattro ore con un cliente, pensavo che ci avrei messo un’ora e mezza circa, ma con la neve fino alla vita ci ho messo quattro ore. Qui io sapevo che non potevo contare su nessuno per farmi sicura, e che sarebbe bastata una piccola scivolata per cadere: la mia non era una ricerca della velocità a tutti i costi; avrei potuto metterci una settimana, visto che il percorso non era mai stato fatto, ma ero allenato e ho deciso di partire leggero, credo non avesse senso metterci di più.
Qual è stato il momento più bello di questa traversata?
Il momento più bello è stato quando sono salito in vetta al Cervino per la seconda volta: era buio e mi aspettava la discesa per la via normale italiana che, pur essendo d’inverno, è una via che si conosce molto bene e mi sono goduto l’attimo, anche se in realtà è stato un attimo molto breve, era davvero freddo e mi sono fermato solo pochi secondi. E’ stato bello perché non mi era ancora capitato di essere in vetta al Cervino due volte in poche ore, la prima verso le 10 di mattina e poi alle 8 di sera, di nuovo. Ho un ricordo molto bello, di questi e di altri momenti.
Come gestisci la paura? Ti capita di averne?
Credo che la paura da gestire sia quella che diventa panico, perché quel tipo di paura paralizza e ti impedisce di agire, ma in generale la paura è un’emozione, un campanello d’allarme sano, che spesso costringe a fare più attenzione in luoghi più o meno pericolosi. La paura è la voce interna che fa decidere di andare avanti o tornare indietro. Avere paura è una cosa normale, se gli alpinisti non avessero paura…. ce ne sarebbero pochi in vita ed è fondamentale, perché permette di capire se e quando decidere di fare un passo indietro.
(Simonetta Radice, inviata di altitudini.it all’IMS)