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L’attività del cosiddetto “escursionismo”, come oggi lo intendiamo, ha una storia relativamente giovane sulle nostre Dolomiti e va considerata figlia di quella che una volta era l’esplorazione – anche sistematica – delle montagne da parte dei “pionieri”.

Da allora ad oggi, naturalmente, molte cose sono mutate: sono cambiate le persone, gli scenari, i mezzi, le modalità. Ancora fino all’800 andare verso l’alta montagna significava sfidare un mondo in gran parte ignoto: insensato era inoltrarsi in un territorio tanto selvaggio quanto improduttivo, di cui solo i valligiani più arditi custodivano alcuni segreti carpiti sulle tracce dei camosci.
Poi furono gli sguardi curiosi di raffinati viaggiatori a farci cogliere una bellezza – fino a quel momento ignorata – anche nell’orrido delle temute altitudini.
Da allora l’evolversi dell’alpinismo ha visto trascorrere le diverse stagioni delle prime esplorazioni, delle conquista delle cime maggiori, dell’attacco alle cime più difficili, dell’arrampicata fine a se stessa su pareti ogni volta più remote o difficili.

Escursionismo ai nostri giorni

Oggi andare in montagna può voler dire tante cose, visto che non ci mancano i mezzi più sorprendenti – dalla mountain bike alla tuta alare, dalle ciaspe al parapendio – per portare a termine ognuno la nostra piccola impresa.
E per chi in montagna continua ad avvicinarsi a piedi? Di fatto in un’epoca in cui si è scoperto praticamente tutto, almeno sulle nostre montagne, la prospettiva più comune sembra quella di calcare gli stessi passi già descritti da altri. Oggi si sente parlare di obiettivi, di sicurezza, di certezze, di prestazioni; facilmente l’imperfezione è bandita, l’insuccesso malvisto.
A casa – davanti a mappe dettagliate e Gps, previsioni meteo e delle valanghe, relazioni ricche di dettagli circa itinerario e difficoltà – ci vediamo come all’inizio di un chiaro percorso che ci condurrà dritti alla meta e ritorno (nei tempi previsti).
L’alternativa, portata avanti da pochi, è quella che insegue ancora un alpinismo di ricerca di vecchio stampo, quando ora gli obiettivi sono però più negletti e remoti, e spesso rinunciare volontariamente a certo supporto logistico o tecnologico fa parte di un gioco che appare quasi illusione.
Ma in un caso o nell’altro, una cosa è rimasta immutata e si propone come costante del nostro andare in montagna: è la meta. Lo stimolo è sempre quello di guardare in alto, o comunque oltre. Verso la meta predigerita e nota come la meta sperata e inseguita.
Cos’è cambiato però, in modo radicale, dall’epoca dei pionieri agli anni 2000? Ai giorni nostri non possiamo ignorare i profondi mutamenti che la penetrazione del “progresso” ha portato nell’ambiente montano, prima di tutti la rapidità di accesso, garantita da autostrade e strade secondarie che si spingono fino ai più alti valichi dolomitici.
Pur non rimpiangendo un “romanticismo” forse mai esistito, consideriamo che certamente per noi oggigiorno raggiungere la base di una montagna è cosa da poco rispetto anche solo a pochi decenni fa. L’avvicinamento ai monti sa anzi di noiosamente inevitabile, se non proprio di fastidioso, mentre il nostro camminare diventa piacevole spesso solo alle alte quote.

Media montagna: montagna media o mediocre?

Chi ci rimette in realtà è la cosiddetta “media montagna”. Sì, quel trascurabile intralcio di prati, boschi, sentieri che si frappone tra la nostra auto ben parcheggiata e la cima che abbiamo in mente. Quella che, se assurge a meta indipendente, è forse solo per veder distendere il plaid della più classica icona turistica del picnic.
Montagna di mezzo, forse di intralcio; magari anche interessante, e bella, ma dalla quale già guardiamo avanti. Né carne né pesce, in fondo: né comodamente approcciabile, anzi spesso terribilmente scomoda, per essere piacevole come un fondovalle, né splendidamente ardita come le più superbe e degne crode. Montagna media o mediocre? Oggi, allora, non siamo poi tanto lontani, pur nel nostro saputo disincanto, dalle retoriche di conquista d’un tempo; se una volta i sentieri ormai abbandonati dagli antichi mestieri erano considerati “itinerari alpinistici”, cosa rappresentano per noi oggi? E le vecchie radure riconquistate dai boschi? Le antiche casere, i cui ruderi scompaiono ormai tra il rabarbaro e le ortiche? Gli abbeveratoi, le edicole votive, gli spiazzi delle carbonaie, le fosse per la calce, gli slarghi per il filo a sbalzo delle teleferiche, i rustici ripari dei pastori, i muretti a secco?
Ci imbattiamo nel fitto bosco in un alto cumulo di pietre, quasi stritolato dalle radici di grossi faggi: quello che un tempo era un pascolo curato, ora è restituito alla selva. Una mano che non conosciamo più aveva incastrato in modo sapiente un tronco scanalato per raccogliere preziose gocce d’acqua; forse era la stessa che aveva posato, al riparo di una nicchia, un semplice segno di devozione? Le casere, una volta disabitate, intristiscono in fretta, e quella che l’anno scorso avevamo visto ancora in piedi, quest’anno ha il tetto sfondato e non serve più neanche come riparo.

Un ambiente ancora ben curato in Val di Schievenin / Vecchia casera sopra Podenzoi (Longarone) / Vecchia calchera parzialmente recuperata in Val Tovanella (Ospitale di Cadore)

Un ambiente ancora ben curato in Val di Schievenin / Vecchia casera sopra Podenzoi (Longarone) / Vecchia calchera parzialmente recuperata in Val Tovanella (Ospitale di Cadore)

Che il cammino di mezzo diventi meta egli stesso

Non rimpiangiamo questi cambiamenti: ogni età ha i suoi mutamenti e se anche la natura si riprende i suoi spazi, per noi, che mendichiamo un angolo di quella che adesso chiamiamo “wilderness”, non è neppure così tragico. Ma quanto ancora avrebbero da insegnarci i segni della vecchia frequentazione? L’abbandono progressivo della montagna sta portando via con sé quasi ovunque un patrimonio di conoscenze ricchissimo.
Svaniscono i ricordi, nella memoria e ancora più velocemente sul terreno. Stradine lastricate, tratturi, mulattiere, sentieri, menador per il legname, ripide tracce di pastori e cacciatori… Tutte vestigia che nel mezzo della selva scompaiono anche più in fretta che sulle crode.
Alcune realtà locali cercano sporadicamente di preservare questo patrimonio di antichi collegamenti e baite diroccate, con risultati anche eccellenti, in decisa antitesi col moderno turismo dei soldi. Altre volte sono le grandi associazioni, che nella realtà dei fatti si riducono ai soliti pochi, sparuti volontari, che riescono a mantenere vive tracce e sentieri. Ma a che vale lavorare solo di minio e pennello (a volte pure sostituiti dalla più facile bomboletta spray) se poi non siamo capaci di ripercorrere, perlomeno con gli occhi aperti e attenti, i normali sentieri di una volta?
Certo, non vogliamo negare ad alcuno di godere della montagna comoda, solare, fotogenica. Di raggiungere presto vette più o meno difficili, ma comunque di sicura soddisfazione. Ma vorremmo che il cammino di mezzo, fatto troppo spesso di solo sudore ed aspettative, diventasse meta egli stesso. Vorremmo che non fossero solo i soliti pochi sentieri ad essere frequentati e descritti, ma anche gli altri più modesti.
Esistono senz’altro i comodi sentieri, le Alte Vie, i rifugi d’alta quota, le grandi proposte organizzate. E poi vengono gli umili sentieri – come diceva Giovanni Angelini.
Quelli, magari, che non portano più da alcuna parte, da quando son venute a cessare le esigenze di uomini e bestie che non popolano più la media montagna.
Quanto ancora il vagabondare per docili e inselvatichiti pascoli, per fitti boschi, per recondite radure, inseguendo sentieri che si svelano a fatica, sarebbe di stimolo e arricchirebbe il nostro saper leggere la montagna!

Montagna media, ma non minore

Mentre ci si interroga sul futuro del turismo, forse troppo sbilanciato verso “valorizzazioni” – come quella dello sci di discesa – che sono ormai solo imposizioni; mentre si prova a rilanciare economie cosiddette rurali con la mentalità ed il rispetto di uomini del terzo millennio; dal nostro punto di vista di camminatori occasionali (escursionisti? trekkers? comunque vogliamo chiamarci) cosa pensiamo di fare di questa bistrattata media montagna?
Percorriamo allora ancora questi sentieri con animo vivo e senza farci guidare come ciechi; dedichiamo loro del tempo raddrizzando un ometto, togliendo un ramo, spostando un sasso. Saranno passi senza fama né scopo, magari offuscati dalla più gloriosa ascensione conseguente.
Ma preserveranno un poco quella montagna, media ma non minore, su cui del resto affondano le radici anche le più alte crode.
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“Gli equivoci della media montagna” di Gianluca Calamelli (socio Cai della Sezione di Caprile) è stato pubblicato sulla rivista Le Dolomiti Bellunesi (Estate 2016).

autore del post

Gianluca Calamelli | Ho respirato aria di montagna da sempre, per passione di famiglia. Anche oggi appena posso scappo in Dolomiti con gli scarponi ai piedi, ma anche con corda e imbrago o con la mountain bike, le ciaspole, gli sci: ogni mezzo è lecito. Rifuggo le etichette, se proprio dovessi mi definirei semplicemente turista, perché - purtroppo o per fortuna - in montagna resto sempre un ospite. Sono appassionato di fotografia e divulgazione: amo catturare gli istanti imperdibili dei miei vagabondaggi e perpetuarli trasmettendo questa mia passione agli altri. Sono per la montagna libera da imposizioni inutili, dal turismo becero e autoreferenziale, dai concetti di parco-giochi e sicurezza ad ogni costo; la credo invece terreno di esperienza personale per tutti, senza costrizioni verso sentieri premasticati.

5 commento/i dai lettori

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  1. Damiano Gaggia il18 agosto 2016

    La montagna non ha categorie, è un luogo che riappacifica con il mondo che riavvicina alla natura. Ben vengano le strade per raggiungerla o i gps per non sbagliare la via, come spesso accade il progresso facilita la vita senza che pero interferisca con la bellezza del luogo.
    Viva la montagna, tutta.

    • Giorgio Madinelli
      Giorgio il18 agosto 2016

      Pero? Quale pero?

    • Gianluca Calamelli il20 agosto 2016

      E’ un luogo come tanti da vivere. Alcuni ci son nati, alcuni ci vanno a posta per cercar le robe loro: ma ciò che vi trovano è molto soggettivo. Se la montagna non ha categorie forse è meglio non metterle neanche etichette. E sul GPS – ma sulle agevolazioni in genere – userei prudenza, se tecnicamente non interferisce con l’ambiente pure può interferire con l’esperienza sensoriale, ché poi è quello che ci portiamo a casa…

  2. gigi zoldan il1 agosto 2016

    Non mi ricordo chi lo ha detto “la gioia provata a conquistare la vetta di 8000 m. è la stessa di chi riesce a raggiungere la propria vetta di 2000 m.”.
    La montagna riesce ad aprire il tuo cuore a farti sorprendere se riesci ad osservare anzichè guardare, a meravigliarti per un fiorellino ingrandito da una lente o mai visto prima. da commuoverti per un pettirosso che ti segue lungo il sentiero.

    • Gianluca Calamelli il20 agosto 2016

      Non so dirti, io già poche volte son salito sopra i 3000m… Son d’accordo con te nel dire che anche emozionalmente, al di là dello stupore delle alte vette, la montagna è fatta di tante piccole cose, ognuna sorprendente e piacevolissima nel suo piccolo. Oltre – poi – a questa componente emotiva ed intima consideriamo anche cosa è stata la montagna nel tempo passato: ne riscopriremo tanti altri segni di cui sarà bello perpetuare la memoria, secondo le nostre possibilità.

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