Il piccolo Sahib

K2 EXPEDITION

Askole (Pakistan), 15 giugno 2014 — Il piccolo Sahib frequentava le scuole elementari di Askole, l’ultimo villaggio raggiungibile con i mezzi motorizzati nella valle del Baltoro, ma non gli piacevano tutte le materie.

Il vecchio maestro avrebbe dovuto tenere a bada i sessanta bambini che si stringevano fra gli angusti muri dell’unica classe disponibile, fatta con mattoni d’argilla e tetto in legno e paglia, ma ormai iniziava ad accusare i colpi dell’età e non si accorgeva delle fughe che Sahib immancabilmente orchestrava nell’ora di Corano.

Il vecchio maestro era molto ossequioso ai regolamenti della scuola islamica, ed alla fine della lezione pretendeva che ogni bambino recitasse – cantandolo – un passo del libro sacro. Contemporaneamente, un brano diverso ciascuno, ad alta voce. A Sahib questo non piaceva proprio, lo riteneva un piagnisteo d’una noia mortale, a lui d’altronde piacevano solo le materie scientifiche.

Quella primavera particolarmente piovosa era stata la sua salvezza. Nel paese infatti si era formato un discreto rigagnolo, che aveva eroso uno degli angoli della vecchia scuola, creando un piccolo buco proprio nel punto esatto in cui l’aula confinava con la casa del giovane portatore Arif, che si era appena sposato ma aveva dovuto partire subito per un viaggio in qualche campo base. La moglie era sempre nei campi, e la casa era abitata solo dal vecchio padre di lui che dormiva tutto il giorno perché era molto malato.

Le case, ad Askole, hanno una struttura molto particolare: un’area completamente interrata per difendersi dal freddo invernale ed un piano superiore praticamente identico per l’estate. Non che siano particolarmente complicate, le case di Askole: una cucina sopra ed una sotto, ed idem per l’unica stanza dove dormiva tutta la famiglia. Una botola con una scala a pioli era l’unica via di comunicazione fra i due locali. Sahib si era intrufolato nel piccolo tunnel che accedeva al piano interrato della casa di Arif (perdendo quasi i pantaloni), aveva salito di corsa la scala a pioli, era passato in punta di piedi di fianco al vecchio che dormiva ed era sgusciato fuori, proprio di fianco al piccolo ospedale gestito da alcuni medici volontari italiani.

La sala d’attesa era vuota e così era entrato nell’ambulatorio. All’inizio il giovane dottore aveva pensato che fosse stato mandato lì dalla madre per qualche malanno, lui fece orecchie da mercante e si lasciò vistare, così poteva osservare da vicino tutti quei curiosi strumenti e quelle scatolette di medicinali. Ovviamente era sano e il dottore lo congedò, ma lui non voleva andarsene. Quell’ambiente l’aveva stregato. Quando era tornato anche il giorno seguente il medico l’aveva guardato divertito. Il terzo giorno aveva scoperto che fuggiva dalla classe per saltare i canti ed era scoppiato in una sonora risata. Il bimbo pensò che sarebbe stato sculacciato e riportato in classe, ma questo non accadde.

E così ogni giorno era lì, e quando non c’erano pazienti si faceva spiegare dal medico il funzionamento di tutti i suoi strumenti. Riuscì a farsi regalare anche una benda con cui immobilizzava gli arti alla sua rassegnata sorellina.
D’estate era ormai la mascotte dell’ospedale, e dopo aver digerito il fatto che doveva lavarsi le mani era anche diventato aiuto infermiere, e portava il the ai pazienti nei letti.

Il piccolo Sahib ancora non lo sapeva, ma vent’anni più tardi, grazie ad una borsa di studio, sarebbe diventato il miglior medico di tutto il Gilgit-Baltistan. Anche se non sapeva una riga di Corano.

La sigaretta di Assam

K2 EXPEDITIONPaju (Pakistan), 16 giugno 2014 — Sui pacchetti di sigarette pakistane, nella parte che si apre, ci sono rivoltanti fotografie degli effetti del fumo su purulente bocche baffute. Ma lui ormai non ci faceva più caso, il suo cervello annullava quell’immagine e si toglieva un’altra cicca.

Fumava quasi sempre il portatore Assam.
Una volta fece l’errore di accenderne una sul ciglio di una scarpata lungo il fiume, mise il piede in fallo ed iniziò a rotolare giù. Tentò di appigliarsi a ciò che poteva, ma erano solo sassi a malapena incastrati nella terra arida, e come li toccava si staccavano provocando piccole frane. Rotolava col bidone azzurro fissato con una corda sulla schiena, ed inesorabilmente precipitò nel fiume impetuoso, gelido come il ghiaccio e grigio come la cenere.

Nessuno poteva uscire vivo da quella situazione.
La sua vita gli scorse tutta davanti, come spesso capita a chi sa di essere pronto a varcare l’ultima soglia. Pensò a quando una troupe americana, giunta in quelle zone per girare un film con attori superabbronzati e muscolosi che combattevano in ridicole situazioni durante improbabili scalate, notando i suoi occhi verde smeraldo gli affidarono la parte del portatore che salvava la vita a chissà quale prosperosa attrice.

In America era diventato famosissimo, perché il regista Paul Araja e la magia di Holliwood l’avevano trasformato in un eroe, e capitò spesso che turisti stranieri lo riconoscessero facendo la gara per assoldarlo nelle loro spedizioni. Lui si faceva sempre pagare in rupie, piuttosto che in dollari. Vuoi mettere tenere in mano cento dollari, contro un milione di rupie?
Pensò a quante volte aveva fatto la strada verso i campi base, avanti e indietro, con un paio di ciabatte e venticinque chili sulla schiena, giàspezzata nonostante non arrivasse ai trent’anni.
Pensò a quanto avrebbe voluto, un giorno, comprarsi un fuoristrada e portare i turisti su e giù da Skardu ad Askole, così almeno doveva solo restarsene lì seduto comodo e muovere solo i pedali ed il volante.
Pensò anche a quella volta che mentre una turista si cambiava aveva visto un po’ troppo, e sognò quella scena per almeno tre mesi.
E intanto scendeva giù per il fiume, sbattuto a destra e sinistra.

Non sapeva nuotare, stava per morire. Però c’era qualcosa di strano, il fiume, per quanto aprisse le fauci cercando di inghiottirlo e ruggisse in maniera terrificante, non riusciva ad avere la meglio. I suoi piedi non toccavano il fondo, si rese conto che il bidone, non essendo completamente pieno, aveva al suo interno una sacca d’aria che l’aveva trasformato in un surrogato di salvagente. Forse non sarebbe morto. Scendeva a valle con una velocitàvertiginosa, di li a poco una gigantesca cascata avrebbe potuto disintegrarlo. Evidentemente non era la sua ora: un vecchio tronco si era incastrato fra due sassi e lui riuscì ad afferrarlo.

Lottò ancora per tirarsi su, e quando fu sicuro di essere ben saldo sciolse la corda che legava il bidone, che partì come una barca impazzita e sparì nella schiuma della cascata.
Più tardi seppe che conteneva solo poche bottiglie di liquore, e che in qualche villaggio a valle forse qualcuno, qualche giorno dopo, si era divertito chiudendo un occhio sui precetti del Corano e sulle leggi locali.
Senza il peso sulla schiena si tirò sul ramo e come un gatto raggiunse la riva. Alcuni portatori avevano assistito increduli alla scena.

Era salvo, era un miracolo. Assam divenne un mito, ma non perché era sopravvissuto a quell’inferno d’acqua, non perché era una star del cinema. Semplicemente divenne leggenda perché lui, nonostante tutto questo trambusto, era riuscito a tenere la sigaretta accesa, e fece l’ultimo tiro proprio appena uscito dall’acqua. (continua)

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Matteo Zanga autore del post

Matteo Zanga | Sono un fotografo a tutto tondo. Sono nato e vivo in montagna, per cui è abbastanza naturale che molti dei miei lavori siano svolti in questo ambiente. Sono molto fortunato ad essere riuscito a trasformare le mie passioni in un lavoro. Non amo molto le fotografie di paesaggio, preferisco azioni o situazioni in cui ci siano la presenza e la forza dell’uomo. Adoro i ritratti.

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