Comprensorio sciistico Sella Ronda, inverno 2015-16 (ph. Carlo Pizzinini)

Comprensorio sciistico Sella Ronda, inverno 2015-16 (ph. Carlo Pizzinini)


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Nel corso dell’anomalo inverno 2015-16, durante il quale la neve e il freddo si sono fatti attendere oltre ogni più ottimistica speranza, la redazione di altitudini.it lanciò una provocazione (vedi articolo “Non aspettare l’inverno, forse non arriverà“) che ora vogliamo riproporre con questa inchiesta curata da Andrea Pasqualotto. La domanda che ci poniamo è questa:
«È giusto continuare a considerare gli inverni avari di neve come una eccezione e quindi fare finta di nulla e sperare nel prossimo inverno?»


LANDSCAPE PRO / Sverre Hjørnevik (NOR), riders Seb Mayer (F) & Bard Oymar (NOR)

Cimon della Pala, Pale di San Martino – (Sverre Hjørnevik (NOR), riders Seb Mayer (F) & Bard Oymar (NOR)

C’ERA UNA VOLTA,
in una valle circondata da alte montagne, un villaggio che ogni anno a dicembre veniva sepolto dalla neve, avvolto dal silenzio, da aria pura e frizzante, sempre illuminato da un sole accecate in un cielo azzurro sgombro di nuvole. E così fino alla primavera inoltrata. Avete bene in mente questa immagine? Sì dai, è in tutti i siti web, nelle riviste, nei programmi tv che mostrano la montagna d’inverno.
L’immaginario di chi frequenta la montagna e soprattutto di chi vive di turismo si alimenta da sempre di queste immagini. Le infrastrutture, l’offerta degli operatori, le strategie commerciali, tutto il settore economico turistico si è strutturato sulla base di un unico modello di sviluppo: l’inverno in montagna con la neve.
Ma se l’inverno, ormai alle porte, non portasse la neve, cosa accadrebbe? Quali conseguenze porterebbe alla montagna?
Nel corso dell’anomalo inverno 2015-16, durante il quale la neve e il freddo si sono fatti attendere oltre ogni più ottimistica speranza, la redazione di altitudini.it ha proposto un’interessante riflessione che ora vogliamo rilanciare (vedi articolo “Non aspettare l’inverno, forse non arriverà“).

ECCEZIONE O FUTURA NORMALITÀ?
È giusto considerare tutto questo come una eccezione e quindi fare finta di nulla e sperare nel prossimo inverno? Abbiamo posto questa semplice domanda ad alcune persone che si occupano o vivono di turismo sulle Alpi.
Il professor Andrea Macchiavelli, docente di Economia del turismo all’Università di Bergamo e a autore di rapporti sul turismo alpino, ci aiuta prima di tutto ad analizzare la situazione.
«Innanzitutto prendiamo atto che non sarebbe la prima volta. Si sono già ripetuti diversi inverni in cui la neve è stata pressoché assente; in altri è giunta alquanto in ritardo e per gli operatori turistici alpini ciò equivale comunque ad una sensibile contrazione della redditività della stagione turistica. Proprio alla luce di questi ripetuti segnali di rischio la quasi totalità degli operatori si è attrezzata con gli impianti di innevamento artificiale, che hanno consentito, nelle stagioni di scarso o nullo innevamento, di far fronte alle condizioni critiche. Se il prossimo inverno non nevicasse, dunque, una gran parte delle aree sciistiche italiane sarebbe almeno parzialmente protetta, come ha dimostrato di esserlo in alcuni inverni passati. Intendiamoci, l’evento non sarebbe esente da implicazioni negative per gli operatori economici, perché è ben noto che sciare con un paesaggio innevato non è la stessa cosa che sciare in un paesaggio brullo. Il vero problema tuttavia si pone di fronte ad un altro ipotetico, quanto sempre più verosimile, evento: l’innalzamento della temperatura, a livelli tali da impedire la creazione di neve programmata, condizione che investe soprattutto le località a più bassa quota. Anche questa condizione si è più volte verificata ed indubbiamente ha creato condizioni oggettivamente critiche, che però sono state per lo più limitate ad alcune aree di minore attrazione. Sarebbe tuttavia miope ritenere che il fenomeno del cambiamento climatico abbia scarse implicazioni sulle località alpine invernali.»

Prendendo quindi atto che è in corso un cambiamento a cui è impossibile opporsi, dobbiamo ora capire se siamo pronti e in che modo ci stiamo attrezzando ad affrontare il mutamento. Cristina Dalla Torre di CIPRA Italia e membro della Consulta dei Giovani di CIPRA Internazionale, ci propone il suo punto di vista.
«Provo a immaginarmi il prossimo inverno senza neve e la prima reazione è che mi vengono i brividi. Ciò vorrebbe dire lasciare in soffitta la mia tavola da snowboard, proprio ora che ho scoperto l’alpinismo sulla neve, dimenticarsi quella bella sensazione di pace che ti dà la neve quando ricopre gli abeti e le rocce delle mie belle Dolomiti. Mi preoccupa soprattutto il fatto che a causa del cambiamento climatico, senza neve e il freddo, i ghiacciai, gli abbeveratoi delle Alpi, anche quest’anno continueranno a perdere qualche metro della loro lingua. Mi preoccupa anche il fatto che gli enti turistici non sono pronti, psicologicamente ed economicamente, ad affrontare un inverno senza neve, abituati ormai da molto tempo a ricevere finanziamenti da parte delle Regioni e delle Province per l’ampliamento degli impianti sciistici, per l’innevamento artificiale e annesse infrastrutture per il divertimento. Ma ora è il momento di aprire gli occhi sulla realtà con una prospettiva positiva e trovare il modo di adattarci all’inverno che cambia, a cambiare nella nostra testa l’immagine che abbiamo di questa stagione. A partire dagli sport che pratichiamo solitamente.»


FAR FINTA DI NIENTE “SPERANDO CHE NEVICHI”
RISCHIA DAVVERO DI NON BASTARE PIU’


ESCURSIONI, SCIALPINISMO, CIASPOLE E FATBIKE
La parola chiave che emerge è quindi adattamento, il meccanismo di sopravvivenza di ogni specie vivente, uomo compreso, di fronte ai cambiamenti ambientali, economici e sociali che non hanno mai smesso di mettere alla prova le nostre capacità di risolvere i problemi. L’evidenza del cambiamento è sotto gli occhi di tutti, ma come si stanno adattando i fruitori della montagna al cambiamento? Lo abbiamo chiesto a Mario Fiorentini, gestore del rifugio Città di Fiume ai piedi della parete nord del monte Pelmo. Il rifugio Città di Fiume non si trova sulle piste da sci, ma per la sua posizione è comodamente raggiungibile con una breve escursione praticamente tutto l’anno. È quindi un buon barometro della situazione generale.
«I fatti, la mancanza di neve, sono stati percepiti dagli utenti, che si adattano a frequentare la montagna in maniera diversa. In realtà è un percorso avviato già da qualche anno con la diversificazione delle attività in montagna anche in presenza di neve. Un tempo d’inverno in montagna si andava quasi solo per sciare sulle piste e chi non era in grado rimaneva in fondovalle. Poi si sono diffusi lo scialpinismo e le ciaspole. Ora anche in pieno inverno si scende dai pendii con la mountain bike e nascono nuove attività. Prendiamo l’esempio della fatbike (una mountain bike con una larghezza delle ruote maggiore al normale che offre maggiore tenuta su terreni difficili, come la neve, ndr). Tre anni fa i primi escursionisti con la fatbike erano considerati dei marziani, due anni fa si guardava la cosa con diffidenza, l’anno scorso se non provavi eri uno sfigato. L’assenza di neve nella prima parte dello scorso inverno è stato indubbiamente un trauma per il settore, tuttavia, per quanto riguarda la nostra attività, non c’è stato il temuto crollo di presenze. Sì, il paesaggio senza neve non è bello uguale, ma le persone in montagna ci sono venute lo stesso, e forse persone diverse da quelle che ci vanno con la neve. Si percepisce la voglia di frequentare la montagna d’inverno, di riavvicinarsi all’ambiente naturale e, ripeto, da persone che forse prima in montagna d’inverno non ci andavano, perché non piaceva loro sciare. Gli operatori però hanno una grossa difficoltà ad organizzare la propria offerta, è necessario cambiare la comunicazione in corso, e se non nevica mostrare velocemente quello che si può fare in montagna anche senza neve.

In alto: Andrea Macchiavelli, Cristina Dalla Torre e Mario Fiorentini. In basso: Eric Girardini, Gianfranco Valagussa e Silvia De Fanti

In alto: Andrea Macchiavelli, Cristina Dalla Torre e Mario Fiorentini. In basso: Eric Girardini, Gianfranco Valagussa e Silvia De Fanti

Eric Girardini, Guida Alpina nata fra le Dolomiti e grande appassionato dello sci fuori pista, ci spiega le sue preoccupazioni.
«Noi Guide, come altri che lavorano quasi ogni giorno a contatto con la natura, lo percepiamo più di altri che magari rimangono tutta la settimana chiusi in ufficio o in posti di lavoro senza particolari contatti con l’esterno. Un conto è leggere le notizie sui giornali, un conto è vedere il sistematico ritiro dei nostri già piccoli ghiacciai dolomitici e toccarli con mano. Penso che dovremo cercare di apprezzare la montagna per quello che è nel momento in cui la viviamo, e non cercare di modificarla per inseguire l’idea turistica che abbiamo dell’inverno. Stiamo assistendo ad investimenti e interventi invasivi un po’ ovunque per creare bacini d’innevamento che riescano a sparare la neve nelle poche ore ormai in cui le temperature scendono sotto lo zero, con discutibili risultati sia economici che estetici, mentre forse dovremmo puntare di più sull’educazione alla vita in montagna e nell’apprezzare l’ambiente come tale.»

Gianfranco Valagussa che la montagna la frequenta da alpinista e da Guida Ambientale Escurionsitica, pone l’accento sul coinvolgimento di nuovi turisti, o forse di nuove consapevolezze nei vecchi turisti.
«Speriamo che qualcuno si ponga il problema, per primi operatori e istituzioni, ma sarebbe riduttivo e soprattutto inutile fermarsi agli auspici. Come Guida Ambientale Escursionistica da tempo propongo ai clienti escursioni invernali con e senza ciaspole. Si tratta di una flessibilità che presuppone un obiettivo diverso: la conoscenza invece dello sport, la cultura al posto della competizione e del consumo del territorio. Non solo occorrerà la dovuta considerazione della trasformazione climatica, bisognerà colmare il ritardo e fermare le azioni di coloro che pretendono il potenziamento delle strutture ed insistono nel privilegiare l’offerta sciistica. Occorre cambiare direzione per l’offerta turistica. Recuperare aspetti dell’ambiente alpino che sicuramente interessano ed hanno un mercato. Potenziare i finanziamenti pubblici non verso l’innevamento o la costruzione di nuovi impianti, bensì verso quei settori che più sono interessati: anziani, studenti, turisti ambientali, professionisti, famiglie.»

NUOVE STRATEGIE ADATTATIVE 
Proviamo quindi a riassumere. Il cambiamento è in corso ed è stato percepito velocemente dai fruitori della montagna che non rinunciano ma anzi cercano nuove opportunità e sperimentano nuove attività. Gli operatori, e come potrebbe essere altrimenti, sono preoccupati, osservano quello che accade intorno a loro e cercano di trovare una strada da seguire. Rifletto sul fatto che anche in natura funziona allo stesso modo. Di fronte ai mutamenti ambientali le specie sperimentano nuove strategie adattative, abbandonando ciò che non funziona più perché non offre nessun vantaggio e adottano nuove soluzioni per affrontare il futuro. Si chiama evoluzione, ed è la forza principale che governa i sistemi ecologici, di cui l’uomo fa parte. La capacità dell’essere umano, a differenza degli animali che possono solo adattarsi ai cambiamenti in atto, è che può provare ad immaginare il futuro ed ipotizzare la direzione del cambiamento, se non addirittura guidarlo.
Siamo quindi tornati al punto di partenza. L’immagine del villaggio di montagna sepolto dalla neve, avvolto dal silenzio, immerso in una valle dove l’aria tersa avvicina le pareti verticali svettanti in un cielo azzurro sgombro di nuvole. La neve appiattisce i rilievi, nasconde le forme, maschera le differenze. Forse, semplicemente, l’assenza di neve ha rivelato le forme sottostanti e può aiutarci a comprendere la vera natura della montagna, ora nuda.

SEMPRE MENO TURISTA E SEMPRE PIÙ VIAGGIATORE
Serve una visione, una prospettiva, che ci viene suggerita da Silvia De Fanti, operatrice di Zoldo Turismo, nelle Dolomiti bellunesi, e responsabile del blog Immersioni con gli scarponi, un buon posto per andare a caccia di visioni.
«Non si può sapere con certezza cosa richiederà il futuro utente nella ricerca di una destinazione, ma il crescente interesse verso l’esperienza emozionale può far pensare a una predilezione verso mete conosciute per la loro unicità. Grazie alla voglia sempre più forte di raccontare e condividere attraverso i social network e il web, il turista è sempre meno turista e sempre più viaggiatore. Ad appagarlo tra le diverse proposte, non ci sono soltanto le comodità sfrenate e personale a disposizione per realizzare ogni singolo desiderio, ma anche la conoscenza profonda del luogo che lo ospita, dalla cultura, alle tradizioni, alla gastronomia. Allo stesso modo, il turista-viaggiatore vuole avvicinarsi alle specificità naturali così nella loro purezza, nello sport e nelle esperienze all’aria aperta, talmente tanto a volte da toccare l’estremo. Una richiesta di autenticità che varierà a seconda del territorio e della sua capienza, i grandi circuiti continueranno ad avere un turismo misto e differenziato, ma la vera rinascita ci si augura possa risaltare in quelle piccole realtà che si sapranno riscoprire, che sapranno scegliere tra introdurre nuove strutture in un contesto incontaminato o valorizzare lo stesso contesto condividendo con tutto il mondo cosa lo rende unico e diverso dagli altri, anche in mancanza della neve.»

Chissà forse domani nevicherà e tutto verrà coperto e appiattito, l’autunno cederà il posto all’inverno nell’incessante ritmo delle stagioni a cui siamo abituati.
Dai usciamo, fuori nevica!

LANDSCAPE WANNABE / Stefan Kothner, rider Raphael Öttl

Pale di San Martino – Stefan Kothner, rider Raphael Öttl

«Passarono le stagioni: la primavera con il disgelo,
l’estate con il fieno e le malghe,
l’autunno con la legna e i funghi,
l’inverno con i morbidi piumini sui letti tiepidi e la neve sulle finestre.
Tutte le cose mutano in fretta. Troppo in fretta.»
(Mario Rigoni Stern, Il bosco degli urogalli)

Andrea Pasqualotto autore del post

Andrea Pasqualotto | Sono guida naturalistica, giornalista e viaggiatore, vivo a Belluno. Dopo gli studi di Scienze Ambientali presso l’Università di Venezia, di Reykjavik e di Roma, mi sono dedicato a progetti di conservazione della biodiversità coltivata e di sviluppo rurale. Attualmente mi occupo di educazione ambientale ed ecoturismo nelle Dolomiti Bellunesi e collaboro con alcuni giornali su tematiche ambientali ed agroalimentari.

8 commento/i dai lettori

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  1. Roberto il3 gennaio 2017

    Gentile Giorgio,
    adattarsi vuol dire anche fare i confronti con la realtà esistente. Intere vallate delle Alpi basano al loro economia sul turismo, che ha avuto grandi ricadute positive non solo sull’economia a ma anche sulla cultura di tante popolazioni. In se lo sfruttamento turistico (brutta parola, ne convengo)non è il male assoluto, dipende da come lo si fa. Meno impianti, destagionalizzazione, smantellamento degli impianti non più sostenibili e ripristino dei luoghi, gastronomia locale, ciaspole, scialpinismo, slittino; ma sì, mettiamoci pure il Wellness e il termalismo, possono essere una strada percorribile. L’articolo mi pare si volti indietro a riflettere sugli errori. Poi sta a noi, anche con il suo utile contributo critico, trovare la strada.

  2. Pingback: A cosa servono? | I camosci bianchi 5 Dic, 2016

    […] anche senza neve, leggete questa inchiesta di Andrea Pasqualotto pubblicata da Altitudini.it: Evoluzione senza neve, adattarsi al cambiamento (interessantissimo l’utlimo intervento – perfettamente adattabile alle Alpi piemontesi […]

  3. omarut il22 novembre 2016

    Il clima è chiaramente cambiato ma non sono cambiate le teste di chi comanda, o probabilmente non si pongono proprio il problema auspicando che tutto tornerà alla normalità dopo questo strano periodo. Esempi lampanti che ho sottolineato ultimamente: ristrutturazione completa di una stazione sciistica oramai in disuso (Pradibosco in Carnia) posta sotto i 1200m di quota con nuove piste, sbancamenti ed impianti vari compresi quelli di innevamento per milioni di €; polemiche dei politici che bacchettano un polo sciistico regionale sul fatto che a inizio novembre non stia sparando neve artificiale.. Basterebbe guardare le medie climatiche rinvenibili su Internet per capire che l’inverno non è più oramai quello della casetta ammantata dalla neve, né come durata né come intensità. Anche puntare sull’innevamento programmato oramai, per tante stazioni sciistiche della mia zona, è un fallimento: il 2015 l’ha insegnato in maniera dura. A noi capire che la montagna esiste anche se non è bianca e qui ci vorrebbe un esame di coscienza collettivo: qual’è il peso ecologico della nostra gita in ghiacciaio alla ricerca della neve? 2.30h di auto sono sostenibili? Da amante della montagna da qualche anno rifiuto categoricamente anche queste trasferte forzate. In pratica: se la neve arriva da sola si scia, se non c’è le alternative sono tante e di sicuro con meno impatto. Alla fine i montanari non dovrebbero essere degli amanti dell’ambiente? e allora facciamo meno gli ipocriti e comportiamoci di conseguenza! / http://omarut.wordpress.com

    • Roberto il3 gennaio 2017

      Anch’io, nel mio piccolo, negli ultimi anni mi sono sempre rifiutato di partecipare a queste trasferte verso i ghiacciai o verso l’Austria, con centinaia di km percorsi. Abito in montagna, e proprio per quello scio se la neve c’è. altrimenti le attività alternative con minor impatto ambientale non mancano.

  4. Gianfranco Medici il18 novembre 2016

    Direi che la situazione non è solo preoccupante ma è drammatica, prova ne è che negli ultimi decenni solo sulle nostre Alpi i ghiacciai si sono ritirati drasticamente e ora anche i laghi di montagna stanno scomparendo, il clima diventa sempre più secco e più caldo e queste sono le conseguenze. Conseguenze che riguardano tutta la superficie terrestre. D’altronde un grande scienziato italiano del XIX secolo il conte Paolo Ballada di Saint Robert (1815-1888) grande appassionato di montagna e socio fondatore del Club Alpino Italiano assieme a Quintino Sella ben 133 anni fa presentò alla Accademia dei Lincei di Roma della quale era membro una memoria spiegando molto bene quale era la vera motivazione del ritirarsi dei ghiacciai.

    Di seguito una sintesi della memoria di Paolo di Saint Robert esposta nel museo a lui dedicato a Castagnole delle Lanze (AT)

    PERCHE’ I GHIACCIAI SI VADANO RITIRANDO

    Scriveva il conte Paolo di Saint Robert in una memoria presentata il 2 dicembre 1883 alla Regia Accademia dei Lincei:
    “E’ risaputo che la temperatura della terra non ha subito variazioni significative da 33 secoli in qua; ciò nonostante da circa 60 anni i ghiacciai delle Alpi si ritirano. Vediamo di spiegare le cause di questo regresso”.
    Secondo il Saint Robert, la causa principale risiede nella diminuzione progressiva della quantità di acqua caduta durante la stagione fredda. Il vapore acqueo, condensato in alto durante la stagione calda, poco contribuisce alla formazione dei ghiacciai, perché in parte ripassa allo stato di vapore ed in parte scola allo stato liquido. Il vapore acqueo condensato durante la stagione fredda. invece, rimane sulle montagne in stato di neve ed alimenta i ghiacciai. Se si osservano le rilevazioni meteorologiche a Torino, a Ginevra e a Parigi, ricorda il Saint Robert, si nota una sensibile diminuzione, rispetto a 50-60 anni prima, dell’acqua caduta durante la stagione fredda. Il Saint Robert spiega, poi, quale è la causa della diminuzione delle precipitazioni nella stagione fredda: il disboscamento dei monti e delle pianure ed i lavori di prosciugamento degli stagni e delle paludi. Il clima, divenuto più asciutto, fa aumentare la differenza di temperatura fra l’estate e l’inverno, il livello delle nevi perenni si rialza ed i ghiacciai si ritirano. Se si consultano le rilevazioni metereologiche, si nota infatti un incremento della temperatura estiva, mediamente, di circa un grado centigrado, sempre rispetto a 50-60 anni fa.
    L’autore, poi, dedica alcune considerazioni all’Europa preistorica, quando le foreste coprivano buona parte del territorio ed i fiumi , i laghi e le paludi rendevano la superficie evaporante molto più ampia che ai giorni nostri. Il deserto del Sahara, inoltre, era coperto da un mare che forniva una massa enorme di vapore acqueo. Quindi, a quei tempi, il clima dell’Europa doveva essere umidissimo. Di conseguenza, la presenza di una notevole quantità di vapore acqueo, mitigando il calore del sole d’estate ed opponendosi all’irradiazione durante l’inverno, riduceva la differenza di temperatura fra la stagione calda e la stagione fredda, facendo abbassare il livello delle nevi perenni. Questa, secondo il conte di Saint Robert, era la ragione per cui i ghiacciai, a quei tempi, fossero discesi molto più in basso che i ghiacciai odierni, trascinando con se’ massi e detriti che oggi troviamo anche a notevole distanza dalle montagne da cui provengono. A conforto di tale teoria, il Saint Robert citava l’Europa e la Nuova Zelanda, dove il clima, assai umido, raggiungeva una temperatura media assai simile a quella di gran parte dell’Italia, ma con una differenza di appena 7° fra l’estate e l’inverno. Per questa ragione i ghiacciai, in Nuova Zelanda, arrivavano fino a cento metri sul livello del mare. In Europa, dove il disboscamento ed il prosciugamento delle paludi provocato dall’industrializzazione, hanno modificato il clima rendendolo sempre più secco, abbiamo, al contrario, una differenza fra stagione calda e stagione fredda mediamente di 20°.
    Il ritirarsi dei ghiacciai , conclude Paolo di Saint Robert, non è quindi da attribuirsi a cause cosmiche o telluriche, come qualcuno riteneva a quei tempi, ma semplicemente a cause meteorologiche dipendenti dall’ azione prolungata dell’uomo sulla superficie terrestre.

    Tratto da:
    Paul de Saint Robert,(1883-84) Perché i ghiacciai si vadano ritirando, in Atti della Reale Accademia dei Lincei, serie 3, Transunti, Volume VIII, pp 56-62

    • Andrea Pasqualotto il19 novembre 2016

      Gentile Gianfranco,
      la ringrazio per il suo contributo alla discussione. Le teorie del professor Paul de Saint Robert sono sicuramente interessanti, anche se ormai superate. Le teorie attuali prendono in considerazione argomenti diversi, soprattutto il contributo dato dai gas ad effetto serra sulle modifiche della composizione atmosferica e di conseguenza sulla circolazione atmosferica. Si tratta di un fenomeno globale che sta coinvolgendo anche aree dove il contributo locale delle azioni umane, come la trasformazione del territorio, sono poco o per nulla influenti, come il Circolo Polare Artico ad esempio. / http://gravatar.com/andreabelluno

  5. Giorgio Madinelli
    Giorgio il18 novembre 2016

    Articolo obbrobrioso che come fumo negli occhi è stato messo nella sezione Ambiente.
    La parola preminente è adattamento che richiama il bisogno o la convenienza di cambiare in funzione di mutate situazioni.
    Bisogno, convenienza, funzione sono tutte parole legate al marketing e alla pubblicità.
    Il Mercato, il Business ha prodotto il danno (ambientale) e senza nemmeno voltarsi indietro, come se niente fosse ci incita a consumare ancora, adattandoci, però.
    Perché vi prestate come giornalisti e come media a queste porcherie?

    • Andrea Pasqualotto il19 novembre 2016

      Gentile Giorgio,
      sul fatto che il modello di sviluppo attuale abbia provocato dei danni ambientali, economici e sociali non possiamo che essere d’accordo, Mi dispiace che non apprezzi il nostro tentativo di critica, che è il centro della nostra inchiesta. Le assicuro che l’unica cosa a cui ci prestiamo è dare spazio a riflessioni che riteniamo interessanti e costruttive, come quelle delle persone che gentilmente hanno risposto alle nostre domande. / http://gravatar.com/andreabelluno

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