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Quali sono i motivi per cui si chiede alla Provincia di sottoporre a Referendum la proposta di aggregare l’intera Provincia di Belluno alla Regione Trentino-Alto Adige, come previsto dall’art. 132 della Costituzione?

La provincia di Belluno è nata nel 1866 ed ha assunto l’attuale confinazione nel 1923 con l’acquisizione dei comuni di Cortina, Livinallongo-Fodom e Colle Santa Lucia. Una provincia giovane, sopravvissuta come entità amministrativa solo per effetto della sua importanza strategica sull’asse di Alemagna, sempre oggetto di contesa ma non così appetibile da giustificare una annessione di fatto, con tutti i costi che ciò comportava. Questo entrare ed uscire da protezioni potenti e pericolose non ha prodotto una comunità coesa, consapevole di un destino comune e capace di produrre un progetto condiviso. Ha bensì prodotto comunità di valle con grande spirito di autosufficienza e autoreferenzialità. Oggi si possono contare almeno nove comunità che si ritengono cosa in parte diversa da quel che comunemente s’intende per bellunese. I Feltrini con le enclave degli altipiani, i Fodomi ladini e alto agordini, gli Gnas e gli Zoldani (quasi estinti), i Cadorini, i Comeliani, gli Ampezzani e i Pagòt Cimbri. Quei che resta fora le i Belumat. C’è sempre stata, irrisolta, dal 1500 in poi, una frattura tra la città di Belluno, nobiliare e possidente, che ha abbandonato la sua tradizione produttiva per diventare una molle amministratrice, e il “contado” produttivo e autosufficiente (rispetto a Belluno). Feltre è sempre stata commerciale e produttiva, il Cadore ha mantenuto relazioni autonome con Venezia, con tanto di privilegi e autentica indipendenza statutaria. Ampezzo, Comelico-Sappada e Fodom sono sempre stati con la testa e il cuore rivolti a nord, parte dei Feltrini hanno più dimestichezza col Cismon che con la Piave. Cosa ha tenuto insieme i Bellunesi finora? Le guerre e la sfiga. Le guerre hanno mantenuto la provincia unita perché diventò un fortino difensivo, poco efficace ma vissuto come baluardo dei confini.

Oggi a questo scopo non serve ed anche l’importanza strategica della strada d’Alemagna non esiste più. Le forze esterne non ci tengono più insieme per forza. La sfiga ha avuto diverse facce. Prima di tutto la miseria. Il suolo bellunese non è fertile e da sempre la produzione agricola è stata insufficiente a sfamare i bellunesi. Da ciò deriva un secolo intero d’emigrazione forzata al ritmo di 5 mila emigranti l’anno. Un’emorragia delle migliori energie che ha sfibrato le comunità. Si considerino poi le occupazioni straniere, l’instabilità geomorfologica, con frane, inondazioni e crimini coloniali come il Vajont. Una comunità non si consolida nelle disgrazie ma con i successi, che sono arrivati solo negli ultimi trenta anni. Pagando l’elevato prezzo di dover praticare un modello urbano completamente estraneo alla cultura montana. Siamo divenuti ricchi rinunciando a quello che siamo. Siamo diventati molto ricchi, più della pianura, più della padania, più dei veneziani che ci hanno sempre considerato meno dell’”om selvarech”.

Abbiamo accumulato una ricchezza che non è divenuta capitale sociale comune, ma somma di patrimoni individuali. Che sappiamo usare sono nell’ottica dell’arricchimento individuale e non nell’interesse comune. In questa fase storica eventi esterni (la globalizzazione) ed interni (il campanilismo e la debolezza comunitaria) producono una forza centrifuga che, se non governata, porterà alla dissoluzione della provincia come ente (poco male) e come insieme di comunità autodeterminanti (molto male).

Questo accade per una serie di eventi demografici che stanno eliminando i bellunesi montanari nelle proprie basi biologiche antropologiche. Ogni anno muoiono 800 bellunesi più di quelli che nascono. Il saldo naturale (nati meno morti) è negativo dal 1990. Non ci sono più le forze per ricambiare i 110 mila attivi (ne mancheranno circa 13-15 mila entro il 2020 (doman l’altro) e senza gente che lavora non si potrà mantenere l’attuale PIL (circa 5.900 milioni di euro nel 2008, con circa 30 mila € pro capite, con un patrimonio di circa 451 mila € per famiglia), né mantenere tutte le persone inattive che diventeranno di più degli attivi. Questa evoluzione demografica ha fatto crescere l’indice di vecchiaia a 182 e gli anziani in provincia sono 1/3 dei residenti. In alcuni paesi ci sono quattro anziani per ogni ragazzo con meno di 15 anni.

Alcune comunità sono già sparite come tali e i paesi sono luoghi in cui non si vive, ma si sopravvive, in attesa che tutti gli abitanti delle montagne scendano a valle e le loro proprietà diventino luoghi di speculazione economica senza freno. A Selva di Cadore (ad esempio) ci sono 887 abitazioni non occupate su 1.115, il 78,7% degli immobili. Certamente qualcuno, con tutte queste case, avrà fatto un bel business ma come pensate che si viva in un paese fantasma che è vivo d’estate (2 mesi) e d’inverno (1 mese) e per il resto dell’anno è una “ghost city”?

La provincia di Belluno ha il più basso indice di nuzialità di fecondità e natalità e il più elevato indice di divorziabilità del Veneto. Le basi della riproduzione della specie sono in discussione. Anche le basi umane della produzione sono in discussione perché, per ogni quattro attivi che lasciano il lavoro, ne abbiamo solo uno che li sostituisce.

Nessuno si preoccupa di questo, continuiamo a perdere residenti in quota e, anche se nei comuni della Valbelluna molti fanno ricchi affari (soprattutto immobiliari), la provincia si svuota e diventa con estrema facilità terra di conquista. In Valbelluna si vendono terreni agricoli, a imprese trevisane e trentine, per un euro a metro quadrato, una pipa di tabacco. I residenti vendono alberghi e attività commerciali a società straniere (i 2/3 dei supermercati bellunesi sono di proprietà di non bellunesi). Il 70% delle abitazioni non occupate (circa 30 mila) sono in proprietà di non bellunesi. Si stanno svendendo le basi della produzione e quindi il reale potere decisionale sul nostro futuro, a prezzi di saldo. Per questi motivi, e per altri altrettanto importanti, molte comunità bellunesi hanno cercato (secondo il loro stile) di trovare una soluzione per sé. A cominciare da Lamon per giungere a Sappada ognuno cerca di svignarsela e risolvere per proprio conto i problemi illustrati, che derivano un gran misura da eventi esterni e al di fuori del nostro controllo ma, in egual misura, dalla cecità della Regione Veneto, incapace di produrre politiche agricole, commerciali, industriali, scolastiche e turistiche su misura della montagna. Le élites dirigenti del Veneto non hanno alcun interesse per la montagna o, meglio, non ne hanno alcuno per i montanari. In vacanza in Dolomiti ci verranno comunque, che gli frega a loro se l’albergo non è più di proprietà di un imprenditore locale? Meglio se è della Ciga Hotels di cui loro sono gli azionisti. I referendum comunali, che hanno posto il problema dell’insostenibilità della situazione nella montagna bellunese (grande merito) producono, però, tre effetti negativi:

  1. dividono a metà la comunità locale e questa divisione è un’ulteriore mazzata alla coesione necessaria per affrontare i problemi che abbiamo di fronte (solo a Sappada il referendum ha raggiunto il 71% negli altri paesi hanno raggiunto il 50-60%);
  2. l’eventuale successo dei comuni referendari lascia tutti gli altri indeboliti e più esposti alla dissoluzione;
  3. i comuni che trasmigrano entreranno in comunità più efficienti a produrre politiche per la montagna, ma già fortemente strutturate, entro le quali essi saranno sempre (e per sempre) una minoranza (“i ultimi rivadi”) e, perciò, la loro autonomia invece che crescere diminuirà.

Per tutti questi motivi espressi in sintesi estrema, ma sostenuti da solidissimi dati raccolti con estensione e profondità, riteniamo che una possibile soluzione a questa difficile congiuntura sociale ed economica sia di sottoporre a referendum la proposta di aggregare l’intera provincia di Belluno alla regione Trentino Alto Adige, come previsto dall’art. 132 della Costituzione Italiana, per i seguenti motivi:

  1. E’ l’unica possibilità per l’intera provincia di evitare la dissoluzione come entità autonoma.
  2. E’ l’unica proposta in grado di dare sufficiente forza alle comunità all’interno di una nuova collocazione amministrativa.
  3. E’ la migliore tra le ipotesi di trasferimento amministrativo, poiché la regione Trentino non esiste come ente amministrativo accentrante, essa è un mero contenitore di due province autonome alle quali non viene “annessa” Belluno, che diventerebbe, invece, la terza provincia autonoma, necessariamente dotata di potere legislativo poiché la regione Trentino Alto Adige questo potere l’ha delegato alle province.
  4. Questa soluzione inserirebbe la provincia in un contesto di due legislazioni (di Trento e Bolzano) attente ai problemi della montagna e capaci di proporre strumenti legislativi e regolamentari differenti, con una notevole esperienza accumulata, alla quale potremmo fare riferimento per acquisire competenze che altrimenti non avremmo a disposizione.
  5. Le due province autonome si sono già dotate di Comunità comprensoriali (otto a Bolzano e undici a Trento) ed hanno già compreso come, nelle realtà montane, gli Enti amministrativi centrali sono strumenti per le diverse Comunità di valle, alle quali delegare molte delle competenze amministrative provinciali. Così l’adesione a questo modello riconoscerebbe non solo una teorica specificità della provincia ma una reale autonomia delle Comunità di valle, mantenendo una coesione amministrativa indispensabile per poter produrre politiche territoriali adeguate.
  6. Il modello dei comprensori dotate d’ampie deleghe è ciò che ci serve per superare l’impotenza di amministrazioni comunali troppo piccole e quindi incapaci di produrre processi di reale autogoverno.

Certamente questa soluzione amministrativa-politica non risolverà tutti i problemi delle nostre Comunità, ma è l’unica strada possibile, oggi, per dare una risposta seria, praticabile e giuridicamente accettabile, alla dissoluzione sociale ed economica dei bellunesi. E’ una risposta necessaria sulla quale dovrebbero convergere tutte le forze politiche bellunesi perché non ci saranno altre possibilità, tra dieci anni sarà irrimediabilmente troppo tardi.

Questa nostra proposta è anche un’assunzione di responsabilità politica e civile. In assenza di percorsi legali, leciti e pacifici per dare soluzione a problemi di questa portata rimangono solo due possibilità: la resa incondizionata e la ribellione violenta. Queste due strade portano alla sconfitta e alla perdita della dignità delle comunità umane e dei loro componenti, seminano ostilità, rancori e divisioni, rassegnazione e fatalistica accettazione degli eventi. In ogni caso, la ricerca dell’adesione del maggior numero di partiti e movimenti è un dovere da assolvere, perché un referendum di questa portata affermerà il valore della sua decisione solo se raccoglierà almeno il 70-75% delle adesioni da parte degli aventi diritto al voto. I promotori del referendum sono pochi, ma l’errore più grande che possiamo commettere è ragionare da minoranza che vuole ottenere il risultato con colpi di mano o trucchi con maggioranze risicate.

Se i bellunesi (comunità e individui) non comprendono l’importanza storica di questo percorso, da fare adesso, in questo momento, pena la dissoluzione, non ci potremo fare proprio nulla.
E’ necessario andare diretti e spavaldi per questa strada senza timori e senza sudditanze, chiamando tutti al dovere di sostenere questo referendum che, in ogni caso, è una manifestazione della nostra vitalità e capacità di proporre soluzioni e, in qualsiasi modo si concluda, ci lascerà la convinzione di aver fatto appieno il nostro dovere di cittadini degni di questo nome.

Diego Cason autore del post

Diego Cason | Sociologo, si interessa di sociologia del turismo e della pianificazione territoriale.

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