La vicenda si svolge a Damar, villaggio del Solu, un territorio noto nella voce Solu-Khumbu a chi si reca nella regione dell’Everest. Solitamente è considerato uno dei più evoluti del Nepal, tuttavia se si esce dagli itinerari più frequentati e si va fra coloro che qualcuno definisce gli “sherpa dimenticati”, le condizioni di vita sono ancora semplici per non dire primordiali.
Damar, lunedì 20 gennaio 2014.
A Damar c’è una donna, Dali, al nono mese di gravidanza. Quando le doglie iniziano si avvia verso una capanna nella foresta. Non deve partorire in casa per non renderla impura – così vuole la tradizione e lei non pensa di trasgredire. Il suo sesto figlio nascerà lassù, come tutti gli altri. Ha da poco parlato al cellulare con Ngima, il fratello che vive in Italia.
«Tutto bene» ha detto, «sarà questione di qualche ora.»
Il marito sta per raggiungerla, giusto per tagliare il cordone ombelicale con il kukri che passerà ripetutamente sul fuoco, e poi arriveranno le donne, le parenti, le amiche…
Dali raccoglie un po’ di legna, la accende e aspetta. Le doglie aumentano. Non sarà difficile.
E’ un bel maschietto.
Il bimbo nasce, un bel maschietto e lei se lo mette sulla pancia, poi cerca di avvicinarlo al seno turgido. Ma un dolore lancinante la ferma, alla schiena, al petto, dappertutto… Comincia a vomitare.
Le donne del villaggio sono intorno a lei. Accorrono in molti e arriva anche Yancen, una giovane volontaria della associazione di volontariato Eco Himal che con i suoi i suoi amici Jakub, Olive e Charlie sono al villaggio per insegnare inglese ai bambini della scuola locale, alternandosi a coppie.
Sono appena rientrati da Kathmandu, dopo la breve pausa invernale, portando un carico di medicinali che Ngima ha raccolto, insieme ad alcuni amici neozelandesi e italiani, affinché nel villaggio ci sia una infermeria.
Per questo lui, dall’Italia dove lavora come giardiniere e dove vede che si vive nel benessere, ha deciso di dare una mano alla sua gente. Nel corso di alcuni anni, accompagnando amici e conoscenti sulle montagne del suo paese, organizzando cene tibeto/nepalesi e vendendo oggetti di artigianato locale, ha fornito ogni casa di un piccolo pannello solare, di un rubinetto con acqua potabile ed ora sta creando l’infermeria.
Ha già combinato con una donna del posto, le ha fatto seguire un corso di infermiera e lei ora fa il giro dei villaggi una volta alla settimana.
E’ stata a Damar proprio in mattinata e ha salutato Dali.
«Come va? Tutto bene? Hai bisogno?»
«Tranquilla. Sarà come le altre volte.» Invece…
C’è una donna che ha partorito… sta male… vomita. Cosa le do?
Sono a casa, a Varese, ed è appena passato il mezzogiorno. Il cellulare squilla.
Fra ronzii e rumori vari riconosco la voce di Yancen e a fatica capisco:
«C’è una donna che ha partorito… sta male… vomita. Cosa le do?»
Conosco i medicinali che lei ha al seguito, e immagino quelli della scorta appena arrivata…
«Mio Dio! Tenetela idratata. Acqua bollita, tè, se l’avete un po’ di zucchero.»
«Chiama Mariassunta (amica e nostro medico di base), chiedile cosa devo fare.»
La comunicazione da frammentaria si annulla. Adesso sono io a chiamare. Di nuovo stridii e gracidii e, sperando che capisca, grido:
«La placenta?»
«E’ uscita, in regola.»
«Sangue?»
«Non in particolare…»
La voce scompare. Adesso è lei che chiama:
«Fa fatica a respirare…»
«Tienila rialzata, mettile qualcosa sotto la schiena.»
«Già fatto… e Mariassunta…»
Di nuovo gracidii e poi silenzio. Un altro squillo:
«Respira solo ogni tanto, sembra svenuta.»
Fra gli stridii chiudo la comunicazione e provo a chiamare. Intanto rifletto:
«Un medico in Italia… cosa può dire? Probabilmente è una emorragia interna. Violenta. E allora…. Quaranta anni fa, quando misi al mondo la mia secondogenita ebbi una emorragia, piuttosto grave a detta dei medici, ma ero in ospedale.»
Scison! E’ morta. She is my sister.
Nel frattempo dalla porta di casa entra Ngima. Ha il volto stravolto e mormora:
«Scison! E’ morta. She is my sister. Mia sorella.»
Non è passata più di mezz’ora.
Aggrappati alle comunicazioni gracidanti, veniamo a conoscere alcuni dettagli e il seguito della vicenda. Mentre erano tutti intorno alla morente il bambino è stato posto su un asciugamano, ancora pieno di sangue e di liquidi vari. Vivo.
Yancen lo ha afferrato e se lo è stretto al petto dentro la giacca a vento, chiudendola accuratamente. Anche perché fuori fino a due giorni prima c’era la neve.
Su una altura sopra Damar, hanno celebrato il funerale… con il lama, il fuoco, la cremazione, la prima cerimonia di una lunga serie che dura i 49 giorni nei quali il suo spirito vaga alla ricerca di una nuova via per reincarnarsi.
Il padre del bimbo ha seguito il rituale con aria stralunata, insieme ai due bambini più piccoli, uno di 2 e uno di 4 anni, cui ora dovrà badare da solo. Lassù dove vita e morte sono a stretto contatto si dovrebbe essere avvezzi… ma nella realtà ciò non avviene.
Il bimbo succhia che è una meraviglia.
E il bimbo? Hanno cercato nei dintorni una donna che avesse partorito da poco e stesse allattando. Nulla di disponibile. Intanto è arrivata Diku, la sorella maggiore, di 20 anni, che vive a Kathmandu. Su indicazione di Ngima – e di una amica in Inghilterra – ha portato una confezione di latte in polvere per neonati e del glucosio.
«Il bimbo succhia che è una meraviglia», confermano Yancen e Jakub al cellulare.
Segue una lunga discussione in famiglia: lasciare il piccolo al villaggio, con il padre e i due fratellini, dove fa freddo e non ci sono cure, oppure portarlo a Kathmandu dove vivono la nonna, la zia, la sorella maggiore e tanti altri bambini, ma dove ci sono tanti microbi e dove lui, senza la protezione del latte materno, sarebbe piuttosto indifeso? Una decisione non facile.
Il giorno seguente, mentre Olive e Charlie riprendono l’insegnamento nella piccola scuola, Diku, Yancen, Jakub, il bimbo e alcuni parenti lasciano Damar. Li aspetta una dura giornata di cammino (uno solo, se a passo di Sherpa) e una seconda, almeno diciotto ore, su una jeep di servizio pubblico lungo una strada dissestata e molto esposta.
Alla sera il piccolo arriva a Kathmandu. E’ ancora vivo. Subito viene portato in una clinica provvista di terapia intensiva. Ma, nonostante un ittero pronunciato, pare non ne abbia bisogno. Dopo cinque giorni, con i valori del sangue perfettamente normalizzati, viene affidato alle cure di una famiglia, ma, non allattato al seno, ha bisogno di attenzioni particolari, di latte in polvere, e di tanto amore.
Possiamo abbandonarlo?
Così attorno al bimbo Dawa si è formata una piccola comunità di amici che partecipano a questa specie di adozione collettiva e che contano, prima o poi, di poterlo andare a trovare.
Dawa Nurbu, bambino sherpa nato a Damar lunedì 20 gennaio 2014