Tibet. Verso Tuna, 1937. Carovaniera e lago Rham, a circa 4200 metri. Foto di Fosco Maraini, Archivio Sezione CAI Castelnuovo di Garfagnana.

Tibet. Verso Tuna, 1937. Carovaniera e lago Rham, a circa 4200 metri. Foto di Fosco Maraini, Archivio Sezione CAI Castelnuovo di Garfagnana.

Renato Casarotto o della consegna di immaginario o della morte di Reinhold e della sua fratellanza. Note esplosive in margine a Oltre le Vette 2014. Una provocazione – scritta – senza scorciatoie.

Definire con un solo termine la poliedrica personalità di Alberto Peruffo non è facile. Forse impossibile. Noi comunque ci proviamo e lo vorremo definire come un visionario. Visionario, non vuol dire né vaneggiatore e nemmeno mistico. La nostra è una definizione di chi ha la capacità di vedere oltre i limiti del momento e di proiettare un progetto/idea in un futuro, al di là delle gabbie mentali.
In questo scritto Peruffo ci propone una visione storico-teorico alpinistica, estensibile ad altri aspetti della vita, sulla “consegna di immaginario” ossia qualcosa di non facilmente definibile, che travalica i valori estetici, artistici, culturali o di ingegno di un opera dell’uomo come della persona stessa, capace di alimentare la nostra mente di nuovi simboli e concetti.
L’analisi di Peruffo tira in campo alpinisti di prim’ordine, che più di altri sono entrati nel nostro “immaginario collettivo”, e di loro ci consegna le sue idee. E non è detto che le visioni di Peruffo siano corrette e nemmeno siano prive di conseguenze. Staremo a vedere.
Tra gli alpinisti di prim’ordine troverete anche un colloquio con Alessandro Gogna (senza che l’autore di Sentieri Verticali ne fosse al corrente) e per questo il testo di Peruffo è pubblicato in contemporanea anche su GognaBlog. Un esperimento a “reti unificate” con il blog di Gogna.
Buona lettura e fateci sapere cosa ne pensate.
Redazione di altitudini.it

Non si può negare che la rassegna culturale bellunese sia da tanti anni promotrice di stimoli intellettuali e di ricerca culturale coraggiosa. Alla domanda FRONTIERE? (col punto di domanda), concept di questa edizione, il direttore della rassegna risponde con TRAVALICANDO MURI DI IDEE, titolo della mostra dedicata a Fosco Maraini, titolo al quale io, o perlomeno la mia mente, colta da stupore, ha aggiunto d’istinto il punto esclamativo. Una reazione immaginifica, di cui presto vi parlerò. In quel momento Flavio Faoro stava presentando la nuova edizione 2014. Alle sue spalle una gigantesca foto di Fosco Maraini del 1937 che ritrae uno spazio sconfinato dove si vede una carovana di viaggiatori-migranti-nomadi tibetani prendere le strade dell’ignoto.
Insomma, una “consegna di immaginario” enorme. Scolpita in forma lapidaria nel titolo e controtitolo della rassegna.

Noi non dobbiamo che ringraziare le persone, gli artisti, i poeti, i curatori, gli scienziati, gli alpinisti, qualsiasi persona d’ingegno, pratico o intellettivo, che ci consegna questo alimento primario per la nostra esistenza. Più del pane e più del vino, che sono sì pure essi alimenti primari, ma non sufficienti per portare lo sguardo oltre la nostra casa, oltre il nostro limite, oltre la nostra più o meno sviluppata “consapevolezza dell’insufficienza della nostra esistenza”. Uso questa espressione per eliminare ogni retorica sapienzale su quanto sto provocatoriamente per scrivere. O ancor meglio, documentare.

Prima di entrare in scena mi sono infatti domandato, guardandomi le spalle: e se ci fosse Reinhold Messner in sala? A Belluno. Teatro Comunale, sabato 4 ottobre. Ore 22.30 circa.

Capita, dunque, che mi si chiami, per la seconda volta, a prendere la parola alla fine della rappresentazione teatrale (uso la parola rappresentazione, e non spettacolo, per una differenza sostanziale tra i due approcci scenici) dal titolo DUE AMORI. STORIA DI RENATO CASAROTTO, monologo messo in scena dal regista Umberto Zanoletti, ideato da Davide Torri e tenuto magistralmente sul palcoscenico da Massimo Nicoli e dall’equipe del Teatro Minimo di Ardesio, con le musiche di Francesco Maffeis. Magistralmente, perché tenere un monologo di fronte a una platea abituata a ben altro, senza neanche l’ombra di un’immagine riprodotta, zero di zero, con il semplice ausilio della musica, di qualche luce bianca e di pochi oggetti di scena, bisogna davvero essere maestri della recitazione.

Detto questo – giusto onore a coloro che ci hanno materialmente “consegnato l’immaginario” – passo subito alla fortissima e densissima provocazione storico-teorica. Con parole facili e sviluppando l’esempio elementare portato nel post-scena della citata rappresentazione. È un fatto: per la prima volta al Teatro Comunale di Belluno ho provato a elaborare di fronte ad un pubblico una mia riflessione teorica che da tanti anni accompagna il mio lavoro di ricercatore culturale. Che non ricerca tanto per ricercare, ma che ricerca per “mettere il piede fuori di casa”. Sé di fronte all’altro. In modo costruttivo. Finché vita non ci separi.

Il concetto fondamentale su cui voglio soffermare l’attenzione è il concetto di “consegna di immaginario”. Un must inconsapevole per l’estetica delle nostre menti.

Spesso mi si domanda – ma questa domanda ogni persona dotata di intelligenza analitica può farla a se stesso – quali sono i criteri delle mie valutazioni, considerate che spesso esse sono spiazzanti, ma molto apprezzate dai miei interlocutori perché sembrano contenere insieme sguardo intuitivo e argomento analitico. In altre parole trovano corrispondenza nel giudizio del mio interlocutore anche se spesso non si capiscono i percorsi attraverso i quali io arrivi a tali conclusioni, percorsi che in seconda battuta risultano essere estremamente analitici e “deflagranti”. Tanto da essere tacciato in più di un’occasione per un radicale-sovversivo – e stiamo parlando di cultura! – fino al punto di essere accompagnato dalla Digos a un recente seminario Unesco di Vicenza, dopo essermi iscritto come semplice “osservatore” culturale. Ciò confidavo a Flavio Faoro il pomeriggio prima di prendere nuovamente la parola al Teatro Comunale di Belluno. «Quando la cultura fa paura».

Ho posto allora semplicemente la domanda a me stesso per portare la mia modalità di giudizio in pubblico. «Come valuti un libro, un’opera d’arte, un’ascensione alpinistica, un’impresa di qualsivoglia natura, o, in estrema sintesi, una persona, addirittura, un amico, una donna, un uomo?». Quali sono i tuoi parametri di giudizio?

Lasciando stare le ultime opzioni e pure le prime, scelgo di soffermarmi sul caso più eclatante, esemplare e prossimo alle cose di questi giorni e all’inizio di questo scritto documentale, che diventerà passo passo sempre più teorico e accattivante. Ovviamente tutte le altre opzioni sono ricavabili da quanto dirò.

Risposta: «io valuto un’ascensione alpinistica, un alpinista, per la consegna di immaginario che essa o esso mi ha dato. Punto». A cui aggiungo una virgola. Ossia non guardo tanto o solo se ha fatto la salita più bella e più difficile, ma guardo la consegna di immaginario che ci sta dietro a quella salita e a quella persona. Che è molto di più della bellezza, della difficoltà e dei consueti legittimi parametri di giudizio con cui si parla di un fatto o di una persona. È  un parametro organico molto complesso, ma intuitivo. Comprensibile da tutti, ma non esprimibile da tutti. Ci vuole una certa disinvoltura con la complessità per poter fare emergere gli argomenti analitici che portano alla reciproca valorizzazione, al fatto che io, tu, e la maggior parte delle persone dotate di un “sentire comune” (potrebbe essere anche l’umanità intera, per via teorica) ci troviamo d’accordo su tale giudizio intuitivo.

Per cominciare non mi soffermerò troppo sulla genesi di questa consegna e sui fondamenti teorici che stanno alla base di questa intuizione elementare che tutti viviamo. Forse alla fine di quanto sto per scrivere proverò a mettere sul piatto della condivisione alcuni segreti di questa consegna, secondo la mia personale esperienza.

Iniziamo con l’esempio illuminante, provocatorio, ma assolutamente serio e accessibile a tutti, esempio che ho fatto alla fine di DUE AMORI. STORIA DI RENATO CASAROTTO e che ha scosso più di una persona. Così mi hanno detto e scritto il giorno seguente.

Dopo un preliminare storico-emotivo dove pure io ero parte coinvolta, essendo figlio e compagno di cordata dei due maggiori compagni di Renato Casarotto, ho abbandonato la mia veste di alpinista e ho indossato la veste dello storico-teorico-spettatore, la veste di persona obiettiva che in parte ognuno di noi è.
Così ho parlato. E commentato. Più o meno.

FUORICLASSE  / PRIMO DELLA CLASSE. UNA DISTINZIONE FONDANTE

«Ora vi farò il nome di tre alpinisti di pari livello, della stessa generazione, tutti e tre indubbiamente di grande valore, riconosciuto, che io stimo molto, magari sotto differenti e specifici aspetti. A me interessa tuttavia solo la vostra reazione immaginifica. Ciò che la vostra immaginazione crea. La vostra reazione [c-reazione!] di fronte al nome. Il vostro sentire e reagire».
Dopo un bel respiro di suspense, ho iniziato.

«Primo nome: RENATO CASAROTTO.
Qui la reazione comune è di allargare le braccia e di emettere un sospiro di irraggiungibilità, alzare la testa, magari dicendo: Oh… Renato Casarotto? Re-na-to… Ca-sa-rot-to! Ha fatto grandi cose… Le cose che abbiamo sentito questa sera».
L’immaginazione corre verso montagne e imprese irripetibili, dense di ignoto, ignoto nascosto in quella sillabazione sincopata. La nostra mente corre alla storia e la storia ci dà la conferma. Per rompere il silenzio e la sospensione della sala, ho concluso, dopo aver abbozzato la possibile comune reazione sopra esposta, con voce sospesa: «Renato Casarotto… Un fuoriclasse dell’alpinismo… forse».

«Secondo nome: REINHOLD MESSNER.
Qui la reazione comune sembra essere: Mmm… Messner… Messner! Indubbiamente un grande, grandissimo alpinista. Ha fatto per primo cose che nessuno aveva mai fatto. La nostra immaginazione corre ai 14 ottomila, all’Everest in solitaria, senza ossigeno, al Nanga Parbat, alle Dolomiti…».
Aggiungiamo pure che però si scontra anche con gli infiniti libri, la presenza mediatica, senza contare le sterili polemiche o altre cose, gelosie, rancori, mancanze che qualsiasi alpinista ha, Casarotto compreso. Ma «soffermandoci solo all’alpinismo praticato, materia sufficiente per il mio ragionamento, potremmo dire, che Messner è un primo della classe. Direi di più – ho detto accompagnando sempre io la platea verso una probabile conclusione – il primo di una classe sperimentale». Senza tanto allargare le braccia della nostra immaginazione e con un movimento ondulatorio della testa. Verticale od orizzontale non importa.
Faccio notare che nella prima esclamazione accennata sopra la reazione più spontanea nei confronti dell’alpinista altoatesino è di “nominare” solo il cognome. Perché di Messner si è perso oramai la persona, l’aspetto personale, il percorso di persona, gli affetti e gli amici, il genius loci. Il nome. Ciò che appare in prima battuta è il cognome. “Messner” è diventato un marchio. Messner Mountain Museum.

«Terzo nome: SERGIO MARTINI.
Ah, Martini. Sergio Martini. Grande uomo e alpinista riservato. Ha fatto tutti gli ottomila, senza ossigeno, dopo Messner; e continua a farli, silenziosamente. Come tante sue ascensioni in Dolomiti». Nome e cognome filano insieme, l’aspetto personale è molto forte. Qui la reazione immaginifica è ancora positiva, come nei casi precedenti, seppure non enorme come per il primo caso. Le braccia forse anche qui non si allargano, la testa tuttavia afferma l’emozione della mente: gli impulsi immaginifici inviati nel pronunciare il nome Sergio Martini. Così da concludere, secondo il nostro ragionamento, che «Sergio Martini potrebbe essere un altro primo dalla classe, un primo di una classe normale, tipo la Normale di Pisa, ovvero sia di alpinisti di alto livello».

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Siamo a buon punto. Abbiamo un fuoriclasse e due primi della classe, di classi diverse. La differenza, storicamente parlando, ossia per cosa resterà nella storia di queste figure, è enorme [ex-norma, fuori dalla norma prevedibile] e già oggi comincia ad essere percepita, dopo 20 anni di metabolizzazione. Tanto grande quanto la consegna di immaginario che le figure considerate ci hanno fatto e che la nostra reazione immaginifica elementare ha comprovato.

Dobbiamo ora sciogliere il nodo teorico per una comprensione mediata, ma non troppo analitica, ancora affascinante per tutti.
Faccio un passo indietro, saggiamente anticipato nella mia provocazione dal vivo, a teatro.
Iniziai infatti così.
«Chi è Renato Casarotto?
Un fuoriclasse dell’alpinismo?
Un genio dell’alpinismo?

Genio non è una parola che io amo molto, ma neppure così retorica se per genio intendiamo una persona che ha costruito percorsi alti e irripetibili. Ripeto. Alti e irripetibili. Perché ci sono persone che fanno anche percorsi alti e ripetibili. E questo vale per tutte le discipline».

Possiamo ritornare alle classi e alla consegna di immaginario.

Non c’è dubbio che i tre alpinisti citati siano tutti molto forti e che abbiano fatto grandi cose. Ma qual è la consegna di immaginario, il “carico di visioni”, che ci hanno consegnato?

La differenza è incolmabile. Un primo della classe può aprire vie nuove, non per forza irripetibili. Un fuoriclasse no. Le grandi vie di Casarotto hanno consegnato al nostro immaginario esperienze irripetibili per complessità e approccio. Almeno fino ad oggi. E se anche venissero ripetute molto difficilmente lo saranno con le premesse scelte da Casarotto, in solitaria e spesso d’inverno e in totale isolamento, opzioni ai quali tutti possono accedere. Scelte primarie. Ogni parola che qui scrivo ha la sua importanza. Osservate il corsivo. Ai quali tutti possono “accedere”. L’accessibilità all’impossibile ha qui valore fondante.

Vi metto nel piatto della bilancia una considerazione che ho già condiviso per trovare conferma di quanto ipotizzato sopra: prendiamo tre vie extraeuropee di Casarotto, Ridge of No Return sul McKinley, Broad Peak Nord per lo Spigolo Nord, Diretta Nord dell’Huascaran South. Io credo, senza pericolo di essere smentito, che tutte e tre queste ascensioni se fossero state compiute oggi, o domani, sarebbero tutte meritevoli di essere premiate con il Piolet d’Or. Tutte e tre! È difficile trovare un altro alpinista che ci abbia consegnato così tanto. Senza contare il Pilastro Goretta al Fitz Roy! Senza contare che sono state compiute tutte in solitaria, in condizioni sempre difficili e senza aggiungere al nostro carico di visioni le grandi invernali sulle Alpi, al cospetto delle quali le luccicanti Piccozze d’Oro del Piolet si infrangerebbero distrutte dalla durezza degli elementi e delle scelte di Renato Casarotto. E se anche non fosse così in merito al premio, resta un fatto che di norma i premi vengono dati ai primi della classe, raramente o quasi mai ai fuoriclasse. Il premio, per sua natura, è un’istituzione classificatoria, spesso impermeabile alla genialità dei fuoriclasse, salvo eccezioni determinate da imprevedibili coincidenze che possono capitare all’interno di una giuria quando viene guidata oltre lo sterile lavoro di normalizzazione dei fatti giudicati.

Dietro a questo ragionamento c’è una grande intuizione di cui siamo debitori alla sceneggiatura teatrale voluta da Davide Torri, costruita sulla voce di Narzareno Marinoni ed elaborata dal regista Umberto Zanoletti con la consulenza storica di Gianfranco Ialongo.

Mi sono dimenticato di sottolinearla in scena sabato sera. Gli spettatori stessi non se ne sono resi conto. Ma lo dico ora: dove sono finiti Boivin-Berhault che hanno aperto la scena in modo spettacolare con la salita in velocità sul Pilastro Rosso del Brouillard… che comunque fecero in modo brillantissimo, tecnicamente parlando. Dove sono finiti i due alpinisti-trasgressori che dovevano conquistare la scena, il nostro immaginario? Dimenticati. Dimenticati anche dagli stessi spettatori di sabato sera. Cancellati in nascere dal nostro immaginario. Alla fine della serata, anche tra i corridoi del teatro, non c’è traccia di gente che parla della loro salita. Io stesso me ne sono dimenticato. Non ho sottolineato la dimenticanza di costoro da parte del pubblico e nel corso della narrazione. Ciò che dovevo fare! Questa geniale partenza della rappresentazione teatrale offre una rilettura della storia dell’alpinismo partendo dal concetto di “consegna di immaginario” che la storia di Renato Casarotto dimostra. E lo dimostra con un esempio estremo di immaginario “trattenuto”, in una narrazione teatrale altamente provocatoria dove le immagini che passano – stiamo parlando di immaginario – sono vicine allo zero. Zero di zero. Tanto da farmi concludere in modo sibillino e poco gentile per gli alpinisti coinvolti nel mio ragionamento storico-teorico che tra 10, 100, 1000 anni dei primi della classe si sentirà sempre meno parlare – chissà quanti illusi avranno ripetuto i 14 ottomila senza la grande visione dei primi ripetitori – mentre dei fuoriclasse, il nome dei fuoriclasse emergerà sempre più alto e carico di reazione immaginifica.
Questa è la fine. A teatro.

PERCHÉ NON SI DIVENTA VISIONARI IN UN GIORNO SOLO E NON LO SI È POI PER SEMPRE

Attenzione ora alla nota storico-letteraria.
Chiamo in causa Alessandro Gogna, grande alpinista e raffinato storico.
Io affermo che di Renato Casarotto si sentirà parlare molto, sempre di più.
I compagni della sua generazione, imbarazzati dalla loro singolare reazione immaginifica vissuta in tempo reale, facevano fatica ad ammettere la sua grandezza. Messner, uomo a cui non si può rubare la scena, l’aveva già capito dall’invernale alla Nord del Pelmo in solitaria di Casarotto. E negli anni seguenti fece molto per insabbiare il valore di colui che intuiva poteva essergli superiore. Il divo e l’anti-divo scrisse Camanni. Pure Gogna fece del suo, forse inconsciamente, ma credo a favore di Casarotto. Lo fece poco dopo Messner e sotto lo stesso peso immaginifico, con due enigmatiche uscite su uno dei libri che resta per me la bibbia dell’alpinismo dolomitico, Sentieri Verticali, che posseggo in prima edizione 1987, quasi fosse una reliquia dei grandi libri che oggi non si scrivono più. Una bibbia proprio secondo l’assunto teorico di “consegna di immaginario” che qui sto proponendo, a partire dal meditato titolo di ogni singolo capitolo e dalla sapiente composizione delle immagini fotografiche. Mai troppe o banali. Un capolavoro sui generis immaginario. Quella reazione immaginifica “generazionale” trova straordinaria conferma in una confessione-ricordo su Renato Casarotto recentemente apparsa nel GognaBlog.

Gogna scriveva nel 1987 – attenzione alle “scariche” di immaginario – le seguenti parole:
«Dal 7 all’11 giugno del 1975 i vicentini Renato Casarotto e Pierino Radin conducono a termine un’impresa folgorante: la salita della parete ovest dello Spiz di Lagunaz. […[ Si può affermare che questo sia il limite massimo cui può giungere la grandiosità di una struttura dolomitica, imperiosamente superiore ai Burel, alle Civette, alle Marmarole: un mondo totalmente a parte, dove Yosemite si può paragonare solo per la quota. Il resto è giungla delle visioni. Perché Casarotto non ci hai scritto nulla? Forse era quello il tempo della scrittura» – E conclude: «Perché: non si diventa visionari in un giorno solo e non lo si è poi per sempre».

Perché Gogna scrivi questo? Sono parole del 1987. Renato è morto da un anno. Quanto pesava su di te il suo carico di visioni? Troppo. Io credo. Anche per un grande alpinista della stessa generazione, altrettanto forte e ambizioso.

Queste parole mi sono state impresse per vent’anni. Dal giorno in cui le ho lette.

Gogna stesso fa un passo indietro nella penultima nota didascalica del memorabile libro, altrettanto enigmatica ed equivoca, atta a diverse interpretazioni.

«Il 16 luglio 1986, a trentotto anni e lontano dalle Dolomiti, Renato Casarotto cade fatalmente in un crepaccio ai piedi del K2. Ci sono delle verità che non si possono mettere per iscritto, al massimo se ne può parlare con amici. La fine di Casarotto apre sensazioni spaventose (forse solo a chi l’ha conosciuto da vicino?) su quanto doppia possa essere la volontà di un grande uomo e su quale facilità di accesso a questo doppio binario abbiano i pericoli che ci vengono incontro».

Ho meditato su queste frasi per vent’anni. Nella prima enigmatica affermazione, estratta dallo scritto di Doug Robinson – Lo scalatore come visionario – l’autore inglese si sforzava di spiegare agli adepti quanto sia molto difficile raggiungere lo stato di visionario. Richiede molte battute. Anche d’arresto. Molta fatica. Ricerca. Sacrifici. Ingiurie. Incomprensioni. «Nonostante tutta la precisione con cui lo stato visionario può essere descritto, esso è ancora difficile da afferrare». E qui dice: «non si diventa visionari in un giorno solo e non lo si è poi per sempre». Gogna strappa quella frase da Robinson e la declina a Renato Casarotto.

Tuttavia esiste un limbo, un passaggio, che forse Alessandro non conosceva. Renato risponde a Gogna ancora prima che egli formuli quella domanda che diventerà in modo equivoco l’affermazione enigmatica strappata da Robinson, affermazione carica di immaginario. Renato risponde: «Raccontare, parlare, è molto difficile. È sempre duro arrivare così vicino all’essenza della vita e poi, dopo, ritornare indietro e sentirsi imprigionati nelle strettoie del linguaggio, completamente inadeguato a tradurre in simboli i concetti e la totalità dell’esperienza vissuta». Parole del suo primo e unico libro, Oltre i venti del nord.

Perché, in fondo, il pericolo più grande per i visionari è di camminare ad un passo dalla morte. Ad un passo dal proprio annientamento. Fisico e mentale. «La facilità di accesso ai pericoli che ci vengono incontro» – forse intesi da Gogna nella seconda nota didascalica citata. Le strettoie del linguaggio non ci aiutano a raccontare questi pericoli e queste visioni. Ma per vie traverse possiamo arrivare ad immaginarle. Forse con parole di riporto. Ma non sempre si riesce a portarle, scriverle. In fin dei conti ognuno vive per sé e per le persone più vicine. E a queste si possono confessare le proprie visioni per avere perlomeno un credito sulla propria esistenza, per far sì che la nostra esperienza diventi realtà, realtà condivisa. Qui mi fermo, per non complicare troppo le cose. E innesco l’esplosione. Lasciando sospesa e irrisolta quella “doppia volontà”. Gogna che mette alla gogna? Non credo.

Casarotto aveva scritto Oltre i venti del nord nel 1985, poco prima di morire. Non si sa per quale motivo. Forse spinto dalla volontà di far riconoscere la sua ricerca di fronte alle pressioni del contesto storico in cui era inevitabilmente inserito. Il libro è infatti un’anti-retorica documentazione della ricerca tecnica che Renato ha appena compiuto in America! Salite da capogiro. Un libro scritto bene. Senza un filo di eroismo o di mercificazione dell’imponente immaginario che sta alla base di quelle esperienze. Un documento e basta. Con la prefazione di Bonatti. A chi mai ha scritto una prefazione Walter Bonatti? A Reinhold Messner? Mi vien da sorridere a vedere il povero Bonatti al Piolet d’Or alla Carriera che passa il testimone della sua eredità, imposta dalla giuria forse grazie alla pre-immaginazione del suo successore, al citato Reinhold Messner; il quale scrive a un anno dalla scomparsa del grande alpinista “monzese” Il fratello che non sapevo di avere. Che libro farsa, patetico solo nel titolo! Gente! Alpinisti! Per carità, capisco il vuoto affettivo di Messner e lo rispetto, ma avete dimenticato ciò che scrisse Bonatti di Messner nel memorabile Montagne di una vita, nell’appendice finale? Bonatti, di Messner!!! Andate a rileggervi le pagine. Lo dico solo per fare onore alle fonti scritte dal pugno di Bonatti. Senza citare il violento scambio di lettere apparso su Alp nel 1989, dove entrambi escono con le ossa rotte e con una pesante scossa negativa al loro immaginario di alpinisti duri e puri, con l’impressione che tutti e due – i due primi della classe, il “re delle Alpi” e il “re degli Ottomila” – ripudiano le proprie “legittime” (per me lo erano) scelte per non dare fastidio l’uno all’immaginario dell’altro: l’incipit della compiacenza. L’incipit della compiacenza! Come avete già visto con Casarotto, il metabolismo dell’immaginario ha tempi lunghissimi. Bonatti scriveva quelle note nel 1989. Il libro sulla nuova fratellanza è del 2013! Bonatti è morto. Messner, senza Reinhold, è vivo.

Bonatti vecchio è stato soggiogato dall’opportunismo e dalla forza mediatica del grande Messner, indubbiamente il primo della classe in alpinismo e impareggiabile fuoriclasse della comunicazione e della cultura dell’alpinismo: Messner tra 100 anni sarà ricordato soprattutto per i suoi musei e come re degli ottomila, più che come il numero uno dell’alpinismo del suo tempo. Forse sono altri. Kukuczka, Schauer, Kurtyka… Boardman, Tasker… il meraviglioso Doug Scott… Casarotto. In confronto e per trasferimento semantico di termini regali, io vorrei suggerire che Casarotto potrebbe essere e forse lo è già, dopo vent’anni di metabolismo immaginifico che ci ha ripulito delle invidie e dalle “cortomiranze” dei suoi compagni di età, un imperatore dell’alpinismo. Forse l’imperatore del suo tempo. O fuori dal tempo alpinistico. Un Annibale dell’avventura umana, come scrisse Gian Piero Motti nella sua Storia dell’alpinismo per commentare il Trittico del Freney: «È un’impresa fantastica, degna della grande tradizione non solo dell’alpinismo ma di tutta l’Avventura umana nel senso più ampio»; la salita del futuro secondo le parole di Roberto Mantovani. «Un cavaliere fuori dal tempo«», disse Camanni. Da ogni classe, aggiungo io. Tanto da ritrovarsi, elaborando un concetto di Camanni, grande prelato in una chiesa oggi non più deserta perché al suo interno l’iconoclastia che uccide le mode e i tempi ha dato il suo frutto immaginifico. E ora tutti entrano nel tempio di Renato Casarotto in religioso silenzio. Ad ammirare immagini che crescono dentro di noi.

Perciò Alessandro, nel tuo magniloquente blog (che meritava a mio giudizio di essere premiato al Blogger Contest 2014, con due riserve: scrivi di tuo pugno solo un post alla settimana ed esci dal dominio di Banff), fai un pensiero a quanto sto per concludere.

Renato Casarotto, con il suo mantra (sottolineato in un passaggio teatrale perfetto), sintetizzabile nell’amo andare dove non conosco (pure nelle sue invernali non ha mai fatto sopralluoghi né un deposito di materiale ), Renato Casarotto non aveva bisogno di scrivere per due motivi che pochi altri possono avere.

Primo: aveva un deposito di memoria e di esperienza impareggiabile, sua moglie Goretta. E i suoi amici più cari. A partire dallo sconosciuto Nazareno Marinoni da cui siamo partiti. A mio modo di vedere, infatti, i grandi scrittori non scrivono così tanto per scrivere, ma scrivono per raccontare, per ispirare. Come hai fatto tu, Gogna, con Sentieri Verticali. O l’altro tuo grande libro, compagno della mia adolescenza alpinistica, Alpinismo di ricerca. Un altro libro a cui non si può rinunciare dopo che si sa che esiste. Una cosa è scrivere per condividere e ispirare, una cosa è scrivere per mostrare, per essere visto. Condividere significa esistere nella memoria di un altro. In qualche modo divenire reale. Reale nell’immaginario di una terza persona. Reale non solo noi, involucri di carne, ma la nostra stessa personale avventura umana, grande o piccola che sia. Avventura che può ispirare quella di altri.

Ecco il secondo impressionante motivo. Così impressionante che resto stupito che un grande alpinista come te non l’abbia espresso per suo conto già alla fine di Sentieri Verticali. Ma forse era troppo presto per elaborare il concetto di “scrittore di alpinismo”. Di scrittore geografico (v. Scrittura geografica in calce). Tu stesso lo sei stato in forme alte. Ti ricordi la Gogna-Cerruti ripetuta in questi giorni da una cordata italiana? E “scrittore di alpinismo” non è la stessa cosa dello scrittore alpinista o dell’alpinista scrittore. Renato Casarotto non aveva bisogno di scrivere niente perché le sue grandi scritture sono state le vie che ha fatto. Scritture così cariche di segni e di immaginario nelle premesse e nei risultati che non hanno bisogno di altro. Basta sapere che esistono. Qualche parola, qualche segno, qualche immagine. Ai propri amici. Alla moglie. Nulla di più.
Quelle scritture geografiche sono là per i posteri e i posteri diranno la loro.

TROPPE USCITE MEDIATICHE DISTRUGGONO L’IMMAGINARIO

Scrivere troppe parole o caricarci troppo di immagini e di informazioni invece fa male. Ci fa distrarre dalla nostra passione. Dalla nostra disciplina. Si espone troppo la propria immagine e si consuma l’immaginario che si vuole lasciare di noi. Si crea un “mostrum” della nostra esistenza. Un mostro di immagini e parole.

Messner con le sue troppe uscite mediatiche sta distruggendo la sua immagine di alpinista di prima classe in favore di fuoriclasse della comunicazione, non tanto della cultura.

È difficile trovare la giusta misura tra lo scrivere vie di alpinismo (ciò che fa lo “scrittore di alpinismo”) e lo scrivere report di alpinismo o altre considerazioni storiche (ciò che fa lo scrittore alpinista o l’alpinista scrittore).

Sbaglia Messner a consegnarci troppi libri. Usura senza rimedio il suo immaginario alpinistico. Col senno di oggi, in continua mutazione, Messner per noi non è più un alpinista, ma un affastellato libresco-museale circondato da fratelli alpinisti che non ha, o perché sono morti, o perché sono inventati. Paradossalmente, per vie iperboliche, un libro (1) di Doug Scott (Himalayan Climber) vale come quaranta (40) libri di Messner. Dei suoi libri coatti.

Sarebbe stato sufficiente una ristampa periodica dei grandi libri di Messner – Settimo Grado, La montagna nuda (Nanga Parbat), Sopravvissuto e il suo capolavoro fin dal titolo La libertà di andare dove voglio – per consegnare 100 volte più immaginario sul grande Messner che la storia dell’alpinismo conosce: Reinhold Messner, dotato di nome e cognome, senza coazioni che hanno reso il nome, Reinhold, vittima del suo abnorme marchio-cognome. Un Reinhold ora irrimediabilmente morto. Messner. Non più Reinhold. Egli, da sé, ha fatto fuori il suo buon nome. Messner ha ucciso Reinhold.

Un Reinhold Messner che resterebbe comunque, e non oltre, un primo della classe.

Dicevo, avviandomi in modo pirotecnico alla conclusione, è difficile trovare la giusta misura tra lo “scrivere” inteso sopra – lasciare segni importanti – “vivere vita”, e scrivere report di vita. O sue finzioni.

In questo Casarotto, come forse voleva intendere Gogna, è stato carente.
Ma scrivere report è ben poca cosa rispetto allo scrivere vita.
A lasciare segni di alimento primario.
Sulle pareti e sull’immaginario dei nostri amici.
Segni che testimoniano una passione di un uomo e alimentano quelle di altri.

A dire al mondo che in quei luoghi remoti e inaccessibili qualcuno è passato. Qualcuno gli ha resi accessibili con delle doti primarie. Nonostante i grandi pericoli, l’ignoto che portano con sé. Quell’accesso di cui parlava in modo enigmatico Gogna e che apre le porte all’immaginario.

Per chiudere, sforzandomi di essere didascalico, prima dell’esplosione finale, la “consegna di immaginario” avviene attraverso la composizione di un equilibrio sottile tra immagini e parole, non necessariamente attraverso la mano di chi è stato l’ispiratore di questo immaginario, nel nostro caso l’alpinista scalatore. Può essere fatta con la classica scrittura di riporto, anche dagli amici o pure per semplice via orale. Le sedimentazioni, come sappiamo, assumeranno svariate forme ed oggi nell’epoca della scrittura digitale le variabili si sono moltiplicate rendendo ancora più difficile e affascinante la questione su ciò che è utile per il nostro immaginario.

COLLEZIONI E MASTURBAZIONI EMOTIVE IN ALTA QUOTA

Ciò che conta veramente tuttavia resta solo la scrittura primaria, la “scrittura geografica”, la via segnata nello spazio e nel tempo da un azione fisica avvenuta in un luogo e in un momento della storia, che diventa tale – storia – attraverso la condivisione. E per fare una scrittura geografica potenzialmente ricca di immaginario sono sufficienti le doti primarie, fondamento di ogni “sincera” avventura umana, nemiche di ogni classe e di ogni classificazione, di ogni status sociale che come sappiamo tende a sedersi circondato dalle protezioni che esso stesso ha prodotto. Spit di qua e spit di là. Queste doti primarie sono: coraggio, determinazione, volontà, carattere, resistenza, intelligenza nella complessità e, su tutte, responsabilità. Le stesse doti primarie che innescano l’immaginario collettivo. Il resto, le doti secondarie, la tecnica, la forza pura, la velocità, l’ornamento stilistico (che non è lo stile vero e proprio), l’arrampicata libera… sono ornamenti che possono servire solo se sono lasciati liberi di agire oltre i campi dei giochi costruiti a proprio uso e consumo, oltre gli artifici dell’uomo e la sua follia suicida pur di apparire.

Attenzione a cosa sto per concludere! Le doti secondarie non sono doti necessarie alla genialità e all’immaginario, sono doti accessorie in quanto doti affinabili. Doti che spesso vengono confuse per primarie, specie nell’epoca dei grandi consumi. Perché sono vendibili. Doti che corrono il rischio di essere spinte troppo verso il virtuosismo e le strade della specializzazione che uccidono la complessità dell’azione. Doti che rischiano di rendere inaccessibile l’immaginario, ossia tenere lontano le persone dallo spazio dell’esperienza che tutti cerchiamo… nella “consapevolezza dell’insufficienza della nostra esistenza”, espressione chiave citata all’inizio di questo scritto che da documentale è diventato teorico. Che ce ne facciamo di un Alex Honnold o di un Alex Huber che arrampicano slegati ripresi passo passo da indiscrete videocamere lungo le pareti dell’inaccessibilità? Niente. Una masturbazione emotiva. Un’illusione spaventosa di libertà. Fin quando non cede l’appiglio. Consegna di immaginario=0. Zero.

Messner ha ragione a dichiarare che il suo alpinismo è fallito, perché dopo tanto parlare e mostrarsi non consegna più immaginario, ma una strada battuta che porta alla spettacolarizzazione del gesto, alla sua collezione: l’inaccessibile resosi prodotto vendibile, museabile, o, peggio ancora, per gli epigoni non all’altezza del maestro, l’azione estrema fine a se stessa camuffata da prestazione di ricerca, irraggiungibile per l’uomo non-specialistico, eseguita da un superuomo che diventa vittima di una parte “speciale” di sé, qualunque essa sia (gli avambracci?), pur di apparire e a volte di incassare qualche misero soldo, mettendo a rischio la propria vita oltre la capacità che abbiamo di calcolare la natura. Il rischio calcolato. La porta di accesso per affrontare la complessità della natura in modo preparato, con le doti primarie a cui prima accennavo.

Non si può calcolare se si stacca un appiglio o un seracco mentre si sta arrampicando. Ma si può calcolare di avere una corda. Di rispondere con l’intelligenza di una protezione. Di rendere accessibile l’inaccessibile con l’intelligenza dell’uomo, rispettando la natura che ti è di fronte e la tua stessa fragile natura di uomo. Non urlandole in faccia la tua arroganza di piccolo uomo onnipotente, egocentrico, iperprotetto o senza alcuna protezione. Magari ripreso da una videocamera superassiccurata sugli strapiombi del falsamente inaccessibile. Provato e riprovato come fosse la scena di un film. Inaccessibile reso accessibile mediante l’idolatria di doti secondarie, spinte al massimo di ciò che un uomo alienato può sostenere. Da vendere a spettatori imbranati. Spugne da spremere colonizzando l’immaginario mediante scorciatoie, consegnando “visioni” che si fermano alle mani e ai piedi della loro illusoria progressione. Progressione che come tutti gli alimenti primari è oggetto di mercato. E se il mercato alimenta il mercato, non le nostre menti, è tutto un gran casino: la scalata libera solitaria di un masturbatore diventa la grande avventura dell’uomo.

fratellanza_forzata_03

Messner può dare la mano a Gian Piero Motti, uno distrutto dalla propria passione, l’altro ossessionato dalla propria ambizione di restare sempre il primo della classe. Già, quel “falliti” al plurale fa pensare. Una profezia di un visionario? Il compagno di classe che mancava, tardivamente arrivato? O, nel caso di Bonatti, la compiacenza scambiata per fratellanza! La strategica compiacenza, scambiata per sacra fratellanza! Specie tra primi della classe di generazioni diverse che alleandosi salvaguardano ognuno il proprio nome, reciprocamente, dopo essersi accorti che primeggiare tra di loro, di età diverse, tirandosi addosso fango, non serve a niente. La tardiva alleanza! Altro che fratellanza! Ripropongo all’editore di Messner di riformulare il titolo del recente libro, così: Walter Bonatti, l’alleato che non sapevo di avere. Per non dire: Walter Bonatti, il compiacente – da me creato a mio uso e consumo – che non sapevo di avere. Immagino Bonatti impegnato su un sesto grado, di quelli duri-duri, enigmatici, per uscire dalla tomba. Per tirarmi il collo. O per tirare quello del suo mancato fratello per non avere evitato questa inevitabile, conclusiva, intuizione editoriale. O concettuale. Che qui formulo con sintesi da iconoclasta sovvertitore, di colui che rompe (kláo) le icone (eikón) per consegnarne altre. Di ben più immaginifiche.

«I primi della classe devono continuamente curare il proprio immaginario. I fuoriclasse no. Ci penseranno gli altri».

Per questo Renato Casarotto resta un esempio che oltrepassa la sua disciplina.
Più di Walter Bonatti.
Per questo Fosco Maraini ci ha ispirato travalicando il muro di idee.
Più di Reinhold Messner.
Per questo a volte si scrive qualche riga di più.
Non solo in parete.

Per prepararsi a partire.
Senza scorciatoie.
Quando sarà il momento.

Alberto Peruffo – scritto per Altitudini.it e GognaBlog, 14 ottobre 2014

sx: Alberto Peruffo, The Burning Cemetery (Bocchetta Paù, Asiago), una delle sue recenti e già celebri-monitorate "consegne di immaginario" (ph. A. Colombara); dx: Sikkim, Himalaya, maggio 2014. Primo sguardo sulla Porta della R.P., 6036 m, sul bordo estremo del South Simvo Glacier, di fronte alla Cresta Zemu del Kanchenzonga. Sotto, il Tonghsiong Glacier. Ghiacciai esplorati per la prima volta dalla Zemu Exploratory Expedition guidata dall’autore (ph. Francesco Canale k2014.it)

sx: Alberto Peruffo, The Burning Cemetery (Bocchetta Paù, Asiago), una delle sue recenti e già celebri-monitorate “consegne di immaginario” (ph. A. Colombara); dx: Sikkim, Himalaya, maggio 2014. Primo sguardo sulla Porta della R.P., 6036 m, sul bordo estremo del South Simvo Glacier, di fronte alla Cresta Zemu del Kanchenzonga. Sotto, il Tonghsiong Glacier. Ghiacciai esplorati per la prima volta dalla Zemu Exploratory Expedition guidata dall’autore (ph. Francesco Canale k2014.it)


Hyperlinks
 — Un ricordo di Renato Casarotto di Alessandro Gogna - http://www.banff.it/ricordo-di-renato-casarotto/
 — Scrittura Geografica 00 di Alberto Peruffo
 - http://casacibernetica.wordpress.com/2013/08/29/scrittura-geografica-00-esposizioni-in-spazio-reale-via-scalet/
 — Due amori. Storia di Renato Casarotto di Alberto Peruffo -http://casacibernetica.wordpress.com/2013/11/26/due-amori-auditorium-di-albino-bg-storia-di-renato-casarotto/
 — Ritratto di Renato Casarotto di Carlo Caccia - 
www.intraisass.it/ritratto04.htm
 — Applausi - Broad Peak North di Carlo Caccia - http://www.iborderline.net/intotherocks/2010/07/applausi/
 — Quando la cultura fa paura di Alberto Peruffo - http://casacibernetica.wordpress.com/2013/02/20/quando-la-cultura-fa-paura-vicenza-e-assisi-sindaci-della-vergogna-lettera-e-brogliaccio-unesco/
Alberto Peruffo autore del post

Alberto Peruffo | Nato nel 1967, vive a Montecchio Maggiore (VI), più di 20 anni di militanza culturale radicale e indipendente lo hanno reso voce autorevole dell'impegno civile italiano e dell'alpinismo di ricerca. Vanta importanti riconoscimenti e collaborazioni con grandi personalità della cultura italiana e internazionale, in molteplici discipline. Fondatore di intraisass.it e della casa editrice Antersass, dirige i lavori della Casa di Cultura C offrendo consulenza, regia culturale e fondamento storico-teorico a tutti i lavori in cui è chiamato in causa. E' stato leader della recente spedizione esplorativa nell'area Zemu del Kanchenzonga per i 150 anni del CAI.

3 commento/i dai lettori

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  1. angelo pollini il27 ottobre 2014

    complimenti, un pezzo vero, scritto bene, di quelli da tenere da parte e da rileggersi ogni tanto per respirare un po’ di aria buona e per riflettere…grazie!

  2. Davide Torri
    Davide Torri il25 ottobre 2014

    Mi inorgoglisce quanto Alberto (un abbraccio amico mio) scrive sullo spettacolo “Due Amori, Storia di Renato Casarotto”: è vero, e condiviso dai tantissimi che hanno potuto vedere questo lavoro, quello che lui dice.
    Quando qualche estate fa con Massimo Nicoli, e una buona bottiglia di bianco, facevamo il lavoro di cesellatura sul testo iniziale per più di una volta l’emozione mi ha fatto fermare. Dovevo attendere che quella strana sensazione si attenuasse per poter ricominciare a lavorare. Ora so, grazie a quanto scrive Alberto, che era il grande peso dell’immaginario che Renato Casarotto aveva depositato nel profondo del mio cuore e che, parola dopo parola, il testo del “Due Amori” andava a sollevare. – http://www.gentedimontagna.it

  3. MountCity il25 ottobre 2014

    Letto e sottoscritto d’un fiato sia pure con qualche difficoltà dovuta a mia carente intelligenza analitica. Quante verità in questo scritto! Ha ragione Peruffo: Bonatti ne sarà contrariato e uscirà dalla tomba per togliergli sprezzantemente il saluto e con lui la Rossana, oculata amministratrice delle memorie del suo uomo. Ma come si fa a negare che da vecchio il povero Walter si sia lasciato, sia pure visibilmente riluttante, soggiogare da Messner? Basta rivedere le registrazioni delle interviste del furbo e compiacente Fabio Fazio o i filmati del Piolet d’or dai quali chiunque può rendersi conto che nulla ormai poteva il povero Bonatti, dopo essersi a lungo contrapposto all’esuberante collega-rivale, contro l’opportunismo e la forza mediatica di (Reinhold) Messner. – http://mountcity.wordpress.com

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