Credo che tutti dovrebbero leggere almeno una volta “Il mondo dei vinti” di Nuto Revelli. Storie così “largamente passate”, per dirla con Thomas Mann, eppure appena dietro l’angolo.
Sono le voci degli ultimi contadini del cuneese tra collina, montagna, pianura e langhe quelle a cui Nuto Revelli restituisce voce con un’opera meticolosa (1), per la quale tutti dovremmo essergli grati. Un territorio che, come tanti altri e forse più di altri, ha vissuto il dramma dello spopolamento delle aree montane, un’umanità che eravamo noi Italiani meno di un secolo fa, nella quale drammaticamente stentiamo a riconoscerci. “Spaesati”, direbbe Antonella Tarpino (2).
Duecentosettanta testimonianze di uomini e donne che raccontano storie simili, di povertà di fame, di lavoro e di fatica che nemmeno sappiamo più immaginare. Di guerra, anche. Di emigrazione e di lontananza. E’ da poco passato il decimo anniversario della morte di Nuto Revelli e la sua figura ha ancora tanto da dire. Soprattutto oggi, soprattutto in un tempo che sbriciola certezze e apre voragini sotto terreni ritenuti saldi.
Il figlio Marco racconta che Nuto passava i sabati e le domeniche sui monti del cuneese armato di un ingombrante magnetofono Grundig. Aveva fretta. Era ossessionato dalla fretta, perché aveva capito che non aveva molto tempo per fare quello che doveva fare. I suoi intervistati sono gli ultimi cantori di un mondo che non c’è più, ma che in qualche modo, anche grazie alla sua opera, non smette di esistere e di farsi cercare. Di cercarci, forse. Un mondo che ha abbandonato le montagne ed è sceso a valle a favore delle fabbriche, a onorare la decisione per cui l’Italia doveva diventare e sarebbe diventata un Paese industriale.
Ma che cosa è stato abbandonato esattamente? Parliamo di tempi in cui la mortalità infantile era altissima. Non solo per malnutrizione o malattia. A volte i bambini erano semplicemente troppi. E allora si buttavano nel fiume appena partoriti. Nemmeno le donne se la passavano tanto bene, nonostante una qualche forma di potere dentro la famiglia l’avessero. Ma i matrimoni erano combinati e quelle che per qualsiasi motivo non rientravano nei canoni del sentire comune erano esiliate crudelmente, ai margini di un mondo ai margini. Diventavano masche, temuti e oscuri oggetti di superstizioni di tutti i generi.
Perché allora, almeno noi che andiamo in montagna siamo sempre alla ricerca dei vecchi alpeggi quasi fosse un pellegrinaggio? Perché – ammettiamolo – la storia di queste persone e di questi luoghi non smette di esercitare un’attrazione fortissima su di noi? Che cosa speriamo di trovare nelle pieghe di un tempo che non sembra essere mai stato il nostro?
Forse la chiave di tutto è proprio qui, in questo tempo che vorrebbe cancellare il passato ma non è capace di disegnare un futuro. Frullati da un eterno presente, la memoria appaltata a un motore di ricerca sul Web, proviamo ancora ad alzare la testa. Qual è la ragione ultima del nostro salire, che cosa abbiamo sempre desiderato andando in montagna, se non la libertà? Un termine quasi anacronistico, eppure, e per fortuna, carsicamente vivo. E’ paradossale, ma dopo che abbiamo avuto tutto e anche troppo, quando vogliamo sentirci davvero liberi torniamo alla fatica. A salire una cima cima, a raggiungere i resti di un alpeggio. Perché a differenza di tanti non-luoghi di oggi, i ruderi di ieri ci parlano. E ci dicono che la libertà, citando Gustavo Zagrebelsky: “non è dove non siamo ancora stati ma là da dove proveniamo”.
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(1) Nuto Revelli, “Il Mondo dei vinti”, Giulio Einaudi Editore, 1977
(2) Antonella Tarpino, “Spaesati”, Giulio Einaudi Editore, 2012
– Il titolo del post fa riferimento al film di Andrea Fenoglio, Diego Mometti e Marco Revelli realizzato con le registrazioni originali delle testimonianze raccolte da Nuto Revelli.
– La foto di apertura del post è la copertina del volume “Il popolo che manca”, di Nuto Ravelli a cura di Antonella Tarpino, Giulio Einaudi Editore, 2013
1 commento/i dai lettori
Partecipa alla discussioneè verissimo, bisognerebbe leggere il libro di Revelli, un uomo che ha lasciato dietro di sé saggezza, impegno, amore per la cultura e la natura. dimenticato troppo presto e poco (se non per niente) fatto leggere a scuola, è stato un grande uomo