Su Spina pesce cent anni dopo

Su Spina pesce cent anni dopo

24.05.2015 Centenario dell’entrata in guerra dell’Italia. Sono sempre rimasta in pace quassù – del resto a duemila metri sul livello del mare, nel cuore delle Alpi Carniche, c’è poco da inventarsi.

Quassù le giornate si alternano come le stagioni, ci siamo abituate tutte, è così che deve andare.
In fondo al mare eravamo e in fondo al mare torneremo, prima o poi, io e le mie sorelle. Cime di conchiglie e gusci marini, grigie con il caldo e bianche con il gelo, questi da sempre i nostri colori.
Ma c’è stato un tempo, circa cent’anni fa,  in cui ci macchiammo di rosso. Rosso sangue. E nero, per le esplosioni delle granate.
Non ci vantiamo certo di questo periodo. Gli uomini si sa, spesso non sanno accontentarsi di quello che hanno e vogliono di più. Ma quassù non vige la loro legge, quassù vale la nostra.
Io non ricordo di averli mai visti prima, o meglio, alcuni bipedi passarono in precedenza da queste parti portando sulla schiena china grosse scatole simili a dei piccoli armadi, c’avevano la loro vita dentro e cianfrusaglie da vendere a quelli  dall’altra parte. Li chiamavano “i cramaars” – venditori ambulanti obbligati dalla miseria – passarono numerosi ai miei piedi diretti tutti all’insellatura più su.. Gli echi delle loro voci mi portarono frasi del tipo “Pasin pal Giramondo, e dismontin par daur viers l’Austria”.
Qualche stagione di calma e sono arrivati a centinaia – sulla schiena sacchi più piccoli, vestiti di verde. Dalla mia cima li vedevo tutti, affacendati a scavare buche nella terra, a trainare grossi pezzi di ferro su per ripidi prati, a spostare enormi quantità di sassi per disegnare linee di centinaia di metri dove correrci dentro a testa china. Fatiche immani per questi bipedi, non ne capivo il senso.

Compagnia volontari Gemona, nel riquadro Barnaba di Buja

Compagnia volontari Gemona, nel riquadro Barnaba di Buja

La chiamavano “guerra”, ne ho sentite di ogni colore, ne ho viste tante.
Quelli verso il sole portavano strane piume nere sui cappelli, quelli verso l’orizzonte di cime a Nord parlavano in maniera più dura e meno musicale. Sono rimasti 3 anni quassù, e in quegli anni mi hanno tenuto compagnia quando fui grigia e anche quando fui bianca.
Alpini – Kaiserjager – Bersaglieri – Schutzen – italiani – austroungarici.
Le mie sorelle furono prese di mira subito, fin dalla comparsa dei primi.
Ne bucarono le pareti a suon di mine e trivelle, costruirono baraccamenti sui loro fianchi, trinceramenti sulle dorsali.
Di me non si curarono, la mia posizione defilata non interessava a nessuno.. Finchè le loro battaglie si fecero cruente verso il Passo Giramondo, allora si accorsero da entrambe le parti che dalla mia china si potevano guardare meglio a vicenda.
Quelli con la piuma sul cappello cominciarono a chiamarmi “spina pesce”, dissero che gli rassomigliavo per com’ero fatta.
Li presi in simpatia.
Inizialmente asserragliati ai miei piedi, tra i mughi rigogliosi ai lati del laghetto di Bordaglia, vollero poi a tutti i costi stare sulla mia dorsale, erano una decina scarsa, guidati da quello che chiamavano “Tenente Nino Barnaba di Buja”, vai poi a capire che volesse dire.

Erano italiani, erano alpini.
Dall’altro lato della dorsale quelli dall’accento duro lavorarono giorno e notte facendomi 2 grossi buchi per ripararsi come tane nel mio ventre, al fresco durante le giornate estive, al caldo delle stufette mentre fuori era gelo. Costruirono un camminamento coperto e sulla mia punta una piccola postazione fortificata con pietre e cemento.
Dall’altra parte, a 30 metri, sulla mia cresta larga non più di 2, nessuna fortificazione, si riparavano sotto le stelle. Gli alpini hanno pregato per mesi, sotto la pioggia, sotto la neve, con il caldo del sole che cuoceva la testa nell’elmetto Adrian.
Li ho sentiti piangere, maledire le loro condizioni e bestemmiare contro gli austriaci. Mai una parola contro l’Italia. Dovevano tenerci parecchio, più della loro vita.

da “La grande guerra in Alta Val Degano”
“L’ 8 novembre calò sulle Alpi il pieno inverno con tutti i suoi rigori, che imposero una tregua alle operazioni militari. La neve seppellì le trincee, bloccò i camminamenti e le strade. I muli affondavano fino al petto ed i loro giornalieri trasporti si interrompevano, così i viveri, le munizioni ed j materiali arrivavano in trincea solamente a spalla. Parte della compagnia Volontari fu scaglionata lungo le mulattiere per spalare la neve ed aprire la pista, mentre gli altri Volontari si concentrarono a Bordaglia di sotto. Da qui ogni notte, spingendosi sulle pareti occidentali del M. Volaia, sorvegliavano il vallone del Rio Volaia trasformato dalla neve e dalle valanghe che ininterrottamente vi si accumulavano, in un largo corridoio, che invitava gli sciatori austriaci a tentare, con rapida discesa, incursioni nelle nostre linee. Per 13 giorni, perdurando il maltempo, gli uomini del presidio di Spina Pesce, non potendo essere riforniti di viveri, si ridussero a mal partito. Due Volontari Alpini, nel generoso tentativo di portar loro un sacco di pane, precipitarono dalla parete nel sottostante vallone di Bordaglia. Il soffice tappeto di una recente nevicata li salvò. I compagni accorsi riuscirono, dopo immani sforzi, a portarli felicemente dentro le nostre linee. Il maltempo riprese con violente bufere di neve. Nevica otto giorni di seguito ininterrottamente. Le falde si accumulano alle falde e lo strato della neve si alza a vista d’occhio. Le montagne si gonfiano, aumentando di altezza e prendendo un aspetto uniforme. Lavine di neve e sassi precipitano nei canaloni spazzando via i ricoveri e seppellendo quanti soldati il destino ha fatto trovare sul loro passaggio. Tutti i combattenti delle Alpi vivono sotto l’incubo delle valanghe ed ogni rimbombo della valle dà loro una stretta al cuore, con l’angoscia di sentire l’urlo dei compagni travolti. Le mulattiere ed i sentieri scompaiono. Non si tenta neppure più di aprirvi una pista. In qualche punto si passa attraverso gallerie scavate nella neve. Causa le difficoltà dei rifornimenti, il presidio di Spina Pesce viene ridotto ad un ufficiale e 5 uomini. Si danno il cambio Volontari della compagnia di Gemona ed alpini del 3° Reggimento (btg. Alpino Val Dora). Quei sei uomini sono attaccati alla vita solo dalla speranza e dalla loro indomabile volontà. Notte e giorno lottano con l’impraticabilità del luogo, col nemico, col freddo, con le valanghe col sonno e, talora, con la fame. Tesi in uno sforzo continuo, senza riposo, sono costretti giorno per giorno, ora dopo ora a conquistarsi la vita. Sfogliando il diario della compagnia in questo periodo, al 5 dicembre 1916 e per sei giorni di seguito leggiamo sempre la stessa nota: neve, neve, neve e vento, neve e tormenta. La guerra sulle Alpi resta così sepolta nella massa grigia della neve. I soldati si muovono, lavorano, dormono, vegliano, combattono e muoiono nella neve. Innumerevoli provvedimenti si devono adottare contro il freddo; i Volontari non trascurano nulla e così non dovranno lamentare alcun caso di assideramento. A Spina Pesce non si può più salire. Al piccolo presidio non arriva più da mangiare, il dilemma è morire sfiniti sulla posizione o scendere. Il 6 dicembre giunge dal Comando della Zona Carnia l’ordine di lasciare la posizione e di ricoverare gli uomini nelle ridotte di Casera Bordaglia. Quei valorosi si preparano in silenzio con lo strazio nel cuore. Quelle rocce, bagnate dal sangue generoso dei loro compagni caduti, erano diventate sacre per essi, mentre il nemico, una volta lasciato l’avamposto avrebbe potuto occuparlo rendendo vano il sacrificio di tante vite. Fissata per un capo la corda e gettato l’altro lungo la parete, calano prima gli zaini, gli attrezzi, le munizioni. Poi quando tutto l’equipaggiamento è al sicuro, messo il fucile a tracolla vengono giù anche loro. Scendono ad uno ad uno nel vuoto aggrappati alla corda diaccia. Per ultimo scende l’ufficiale. Nevica”

La creta Bordaglia

Oggi, sulla mia cima, è ricomparso uno di quegli strani cappelli con la piuma.
In testa ad un ragazzo vestito con i colori sgargianti che si vedono nei fiori dei prati di quassù, non ha corso a testa bassa con la paura di prendersi una pallottola in testa. Assieme ad un altro li ho sentiti parlottare, volevano ripetere l’ascesa del mio versante più impervio, quello dove cent’anni prima salivano gli alpini della guerra e dove nessuno, da allora, s’è più avventurato. Ma stanotte mi son messa l’abito bianco ed ho bloccato i loro intenti cogliendoli alla sprovvista.
Allora, silenziosi, hanno risalito le mie dorsali settentrionali dove stavano gli austriaci cent’anni fa, con qualche scivolone sulle mie pietre nascoste, giungendo infine ai resti della casamatta di vetta. Si son guardati attorno, silenti, ed ho sentito solo un GRAZIE, mentre volgevano lo sguardo alla cresta dove gli alpini si riparavano sotto alle stelle.
“Ora quassù tutto è nostro come loro, i prati ricolmi di fiori, i cervi che prima c’han tagliato la strada, l’odore resinoso dei pini mughi, le acque cristalline dei laghi di Bordaglia e quota Pascoli, le pareti grigie del Biegenkopf e quelle rossastre della Creta di Bordaglia… La memoria che la dorsale di Cima Spina Pesce porta con se, così come tutte le cime qua attorno”.
A noi farne tesoro perchè tragedie del genere non abbiano più a segnare le nostre anime e le nostre amate montagne.

Omar Gubeila autore del post

Omar Gubeila | Frequentatore alpestre da più di 15 anni, amo la montagna in tutti i suoi aspetti. Arrampico su roccia e ghiaccio, pratico lo sci alpinismo, l’alpinismo classico, la MTB, sono tecnico di soccorso alpino nella stazione di Forni Avoltri.

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