Poco più di dieci anni fa, uno scalatore stava arrampicando, con gesti precisi e misurati,
sulla gialla parete a strapiombo di una torre dolomitica alta poche decine di metri.
Le sue dita andavano a cercare minuscole tacche nella roccia per riuscire a sostenere il peso del corpo che, muovendosi con agilità e precisione, assumeva posizioni utili a vincere la forza di gravità per poter progredire verso l’alto.
«Mi no so …» disse ad un certo punto, sbuffando, girandosi verso l’amico che da terra lo assicurava, «me pare che la deventa sempre più dura ‘sta parete».
«Ma dai…» gli rispose l’amico, «Alénete meio e no stà esagerare col rosso, piuttosto».
Il rosso cui si riferiva era il colore del vino, più intenso e scuro certo del rossiccio che venava e chiazzava il giallo di quel muro strapiombante sul quale andavano spesso ad allenarsi.
In quel momento non lo potevano di certo sapere, ma quella che sarebbe potuta apparire una semplice battuta di spirito era invece una percezione corporea e sensoriale di grande sensibilità, perché quella parete sulla quale arrampicavano era il lato di una torre che si stava effettivamente, pur se lentamente, spostando, aumentando impercettibilmente ma progressivamente la sua inclinazione.
Impossibile accorgersene a occhio nudo
ma sentire aumentare la fatica a causa del maggiore effetto dello strapiombo, quello sì, poteva essere ma loro nemmeno se lo immaginavano.
Qualche tempo dopo, in una notte di inizio giugno del 2004 la Torre Trephor, quello era il suo nome, crollò verso valle dopo avere ruotato per chissà quanti anni, se non secoli, sullo strato di argilla sulla quale la mano del tempo geologico l’aveva collocata e, toccando il suolo, si spaccò in cubettoni enormi, in mezzo a una nuvola di polvere, disturbando soltanto per pochi secondi il silenzio della notte dolomitica.
Con quel crollo le 5 Torri di Averau perdevano così uno dei loro numerosi pinnacoli che le compongono di cui, dalla conca d’Ampezzo se ne vedono e se ne possono contare solo cinque, da cui il nome assegnato loro, probabilmente dai primi residenti della valle del Boite, in secoli oramai lontani.
Circa settemila anni fa un cacciatore,
di certo conosciuto e stimato tra le sue genti, moriva a seguito delle conseguenze di una caduta che gli aveva spezzato la schiena.
I suoi simili gli diedero sepoltura nella conca dolomitica in cui si trovava, proprio sotto un grande masso isolato nel verde magnifico della valle di Mondeval, quasi a volerne riparare le spoglie dall’inclemenza degli elementi atmosferici quando imperversano con violenza sulla montagna.
Il ricco corredo funebre con il quale fu sepolto fa pensare che i suoi simili lo stimassero grandemente, probabilmente per la vasta esperienza di cacciatore e forse anche per le storie che aveva raccontato loro, attorno al fuoco dei bivacchi, circa i luoghi e le valli limitrofe che aveva percorso e visitato in tanti giorni di svariati anni di caccia alpina.
Chissà se tra tutte le storie raccontate la più incredibile potesse essere stata quella di un grosso animale dalle grandi corna che per sfuggire alle sue frecce lo aveva attirato tra le rocce di tante piccole torri che si trovavano due valli al di là della loro, finendo per far perdere le sue tracce in quel dedalo di rocce tra le quali, alla fine, era scomparso alla sua vista?
E’ possibile che mentre si allontanava deluso per tornare verso Mondeval si fosse girato un’ultima volta verso le torri tra le quali era scomparso l’animale e proprio in quel momento avesse visto una di queste inclinarsi improvvisamente e, infine, cadere lateralmente a terra, spezzandosi in tanti enormi blocchi di roccia che ne ricordavano le forme originali?
Proprio là dove era passato poco prima inseguendo l’animale, là dove si era consumato il ciclopico crollo al quale era sfuggito per puro caso?
Poco meno di dieci anni fa, qualche mese dopo
il crollo della Torre Trephor, un diverso scalatore saliva la Torre Quarta Bassa, un altro dei caratteristici pinnacoli di roccia che compongono il regno delle 5 Torri d’Averau.
Era andato lì apposta, non tanto per scalare la Torre che già aveva salito altre volte, e nemmeno per allenarsi all’arrampicata, quanto per raggiungerne la cima al fine di spostarsi su quella di qualche metro verso levante e potersi sporgere e fotografare, dall’alto, i resti di quella che era stata la Torre Trephor:
La sua reflex aveva impressionato sulla pellicola di diapositive quelle che ora erano diventate spoglie fatte di sassi spezzati dallo schianto a terra.
Erano gli anni in cui si erano intensificati i cosiddetti “crolli” sulle Dolomiti e lui, pur non essendo geologo e né avendo specifici interessi di studio, voleva raccogliere testimonianze fotografiche di quel pericoloso fenomeno per farne un proprio archivio personale.
Fotografando dall’alto e poi ancora dal basso, dopo essere sceso in corda doppia, aveva impresso con precisione in memoria fotografica ciò che succede a una torre quando si rovescia e crolla a terra.
Poche settimane fa, e pochi giorni dopo
essere stato in visita al Museo di Selva di Cadore e avere visto le spoglie mortali dell’uomo di Mondeval, lo stesso scalatore era andato ad arrampicare con amici sulla parete sud della Croda Negra, nei pressi del monte Averau.
Arrivato sulla vetta, aveva guardato prima la sagoma imponente della Tofana di Rozes e poi, quasi per contrasto, gli occhi erano andati al piccolo regno delle 5 Torri d’Averau.
Ricordava molto bene le immagini che aveva scattato a ciò che era rimasto della Torre Trephor dopo il crollo e guardò con occhi più attenti, ma soprattutto diversi, i blocchi di Dolomia a fianco della Torre Grande:
Fu colpito dal disordine “ordinato” di quei blocchi, sicché ne valutò la forma congruente, osservò le fessure che coincidevano tra un blocco e l’altro, fece caso alla dimensione via via digradante, e notò, da ultimo, il blocco più piccolo che avrebbe potuto essere l’ipotetica cima della torre.
A quel punto immaginò di poter “rimettere in piedi” quei blocchi e così eccolo ottenere la forma slanciata di quella che avrebbe potuto essere la “Sesta Torre” di Averau.
La sua fantasia corse subito alle spoglie mortali
dell’uomo preistorico che aveva visto solo pochi giorni prima nel Museo di Selva di Cadore e immaginò che proprio l’uomo di Mondeval, in una delle sue scorribande di caccia, avesse potuto essere stato testimone di quel crollo, l’unico a conoscere il segreto della grande torre caduta, per averlo visto con i propri occhi.
Lo scalatore non era geologo e nemmeno paleontologo ma gli piacque pensare all’uomo di Mondeval di fronte a quel crollo e si immaginò di essere lui ad avere scoperto, pur se casualmente, il segreto della “Sesta Torre”.
Con ogni probabilità, non poteva essere come la sua fantasia aveva immaginato e tutto era avvenuto come per la Torre Trephor, nottetempo e senza testimoni oculari, il battito di un solo secondo nel corso dei millenni della storia geologica del pianeta Terra.
1 commento/i dai lettori
Partecipa alla discussioneIn questo racconto c’è tutta la chimica della fascinazione per la montagna nelle sue più importanti componenti: la percezione del tempo lentissimo e neutrale della geologia, il raffronto con il tempo breve e soggettivo dell’esperienza individuale e l’immaginazione come risultante di queste “forze della mente”, capace di vedere non solo quello che c’è ma anche quello che è stato o che potrebbe esser stato… Molto bello, tra i miei preferiti, trasuda “territorio” e connette esperienze lontanissime