E nell’inseguirsi di cause ed effetti tutto va come deve andare.
L’appuntamento all’alba coi Suoni delle Dolomiti è segnato nella mia agenda da tempo. Il sito dell’evento pubblica da una settimana messaggi rosso fuoco con divieti di campeggio in quota e Licia trova miracolosamente un couchsurfer disposto a cederci un pezzo di giardino dove piantare la tenda e dormire qualche ora prima della salita verso il Vajolet, a pochi metri dal piazzale dal quale partirà la navetta verso il Gardeccia.
La mia Punto stracarica arranca a metano sul passo Rolle, l’ho alleggerita giorni fa del sacco a pelo che ha stazionato inutilmente nel mio sedile posteriori per mesi. Poco male, ci sono 13 gradi e alle 3 di notte saremo in cammino. Il nostro host ci aspetta per le otto e ci vedrà arrivare per le nove e tre quarti, il che non sarebbe grave se non scoprissimo che gestisce un panificio e dovrebbe già essere a letto. Epic fail!
Pizza e tenda, tento inutilmente di convincere Giovanni a svegliarsi per le due ma alle tre stiamo ancora in un dormiveglia disturbato da un fitto via vai di gente: non sospettiamo che poco più in là già centinaia di persone stanno in coda per le navette e di fronte a una biglietteria che chiude proprio quando ci arriviamo noi.
Che casso femo è il mantra di tutti quelli che abbandonano il piazzale, alcuni confusi, altri delusi, altri confusi delusi e un po’ incazzati, noi ci aggreghiamo al terzo gruppo e cerchiamo un modo di raggiungere il Vajolet per le sei, peccato non esista.
Non ci resta che camminare ma dopo mezz’ora
le gambe mi ricordano che non ho mangiato quasi nulla perciò come un mulo mi pianto su un guard rail, tiro fuori savoiardi e succo di frutta e faccio colazione. Riprendiamo il cammino e i carboidrati in circolo mi aprono nuove prospettive su questa scarpinata notturna che non andrà a buon fine: in fondo ci sono tredici gradi e non quaranta, sono ai piedi delle più belle montagne del mondo e non in riva al Melma, sono in ottima compagnia e abbiamo il pane fresco del forno e gli affettati misti.
A proposito, il fornaio ci chiama dal panificio chiedendo notizie, gli rispondiamo mesti che ci stiamo incamminando senza speranza di arrivare in tempo. Ma il cielo è un ricamo di stelle che in pianura non si riescono a vedere, e qui si può scrutare con calma camminando senza fretta su questo asfalto pendenza superiore 10%, asciugando di quando in quando gli occhiali appannati.
Su questo drappo di lucine sforbicia all’improvviso, orizzontale ardente e quasi sonora, la stella cadente più grande che io abbia mai visto, taglia il firmamento per cinque lunghissimi secondi dandoci il tempo di vederla frantumarsi nel buio fitto e lasciandoci increduli ad esprimere desideri importanti. Il mio è “fa che Capossela abbia uno squaraus da grappa+brezza dolomitica e sposti il concerto di qualche ora”.
Probabilmente qualcuno di più romantico
deve aver espresso un altro tipo di desiderio, per esempio “fa che il fornaio mosso a pietà abbandoni le pagnotte per venirci a recuperare con l’auto di servizio, di quelle che possono passare i posti di blocco e portarci in tempo al Gardeccia”.
Beh, pare che abbia funzionato perché di lì a pochi minuti siamo stipati nella sua utilitaria con delle facce tagliate in due da enormi sorrisi increduli e pieni di gratitudine e io penso che questo è il mio buon karma, ragazzi, che torna con gli interessi.
Il nostro passo assume un’andatura euforica nel buio del sentiero che ci separa dalla meta: con noi, uomini donne bambini e cani in una interminabile leggera processione verso l’alto. Non posso non pensare alle mie albe in Galizia perché tutto è cammino, da quel momento in poi. Non c’è quel silenzio, ma una specie di comunione sì ed è un dono farne parte.
A quota 2243 ci stringiamo in un abbraccio e buttiamo l’occhio alla spianata tappezzata di sacchi a pelo, ciuffi di capelli, brandelli di facce intorpidite dal sonno, una conca di anime in attesa, l’anfiteatro della veglia sotto le torri ancora brune del Vajolet.
Il tempo di guadagnare un paio di mq erbosi
e siamo di fronte ad “Antropos, colui che guarda in alto – musica per rocce, vento e terra”, Capossela, il musicista cretese Psarantonis e i suoi figli. Vinicio apre il sipario sullo spettacolo della natura con una voce assopita che quasi non si sente, una puntualità che tradisce i suoi natali teutonici e una solidarietà italiana che spezza il concerto in due parti: l’alba per chi c’era, il mattino per chi arriverà con l’ultima delle navette.
Tra un set e l’altro una coda infinita per il bagno e due tazze di the, uno sguardo attento e insaziabile sull’umanità che mi circonda e sullo spettacolo che ci sovrasta, poco importa se non vedo i musicisti, sono vicina alle casse e si sente piuttosto bene.
Tutto il resto è musica, una musica atavica,
un canto lacerato, ruvido, a tratti esile, un ballo grintoso su San Vito che solleva e scuote i sonnolenti, l’abbandono di Ovunque proteggi fa brillare gli occhi di molti, la fiaba dei calzini smarriti, quello rosso di Vinicio vola via e ho dovuto fare il passo del ghepardo per riuscire a fermare questo momento sdraiata tra i piedi del servizio d’ordine.
Ogni parola risuona in migliaia di orecchie con echi differenti, nelle mie si scolpisce questo pensiero per tutto il tempo “Siamo rupi e ci vorrà un terremoto per avvicinarci”.
E poi non ce ne siamo andati come hanno fatto tutti. Siamo rimasti per goderci il nostro regalo fino alla fine, riparandoci dal sole di fuoco su ripidi scampoli di ombra e infine sotto una tenda che io e Licia ci siamo costruite con i bastoncini, per fortuna quattro, lungo un torrente gelido dove abbiamo ammollato i piedi.
Lì abbiamo scritto il nostro grazie coi sassi, un grazie che si vede dall’alto della rupe, finché qualcuno non li sposterà.