Quando decine di figure scure escono dalla nebbia, come negli incubi peggiori,
è ormai troppo tardi.
Siamo costretti controvoglia a ripiegare, affrontando l’incognita di una difficile discesa lungo un cavo d’acciaio malfermo che precipita nel vuoto.
Poi improvvisamente il provvidenziale colpo di genio in grado di risolvere la tragica situazione.
Sfruttando a nostro favore la stessa fitta nebbia che ci ha messi in trappola, affrontiamo disperati i profili minacciosi di fronte a noi, il piede saldo sulla roccia viscida per l’umidità, l’occhio attento al più piccolo movimento, l’orecchio rivolto a carpire lingue sconosciute di paesi lontani.
Dialetti veneti prevalgono sulle parlate romane, accenti lombardi e romagnoli si contendono equamente il resto dello spazio sonoro.
Silenzi compassati tradiscono origini austroungariche, teutoniche, fiamminghe e scandinave.
Ovunque emergono dalle scogliere ladiniche
corpi tesi nello sforzo, avvolti in poliammidiche, polietileniche e polipropileniche armature.
Sguardi allucinati rivolti alla vetta lontana, agli ultimi posti a sedere e alle piastre roventi come canne di mitragliatrice cariche di salsicce sfrigolanti, non fanno caso al nostro passaggio.
L’imprudente manovra di attacco frontale, ardita quanto inaspettata, sembra avere successo.
Ma quando il pericolo pare scampato, ecco apparire alla nostra vista il dramma delle retrovie.
Corpi ansimanti dai respiri rantolanti strabordano dal sentiero, trascinati a forza da robusti labrador, fieri schnauzer e fastidiosi pinscher.
Mezzi da sbarco quadriposto vomitano sulle spiagge triassiche centinaia di esseri umani, compresi bambini ed anziani a cui non è risparmiata l’agonia imposta da ambiziosi capofamiglia di velluto e flanella bardati.
Trangugiato il caffè macchiato e il croissant
riscaldato queste folle di sbandati, già provate dallo sbalzo di quota, afferrano i tripartiti bastoncini telescopici ordinati sulle rastrelliere e affrontano la salita.
I muscoli flaccidi improvvisamente si stirano, i tendini esausti si infiammano, le articolazioni si slogano, gocce di sudore piombano come granate sulle calcaree superfici.
Inviolate pareti vertiginose e incombenti torri acuminate fanno da sfondo al dramma domenicale, complici le previsioni del tempo di regime che, contro ogni evidenza, annunciavano sole splendente su tutta la linea del fronte dolomitico.
Improvvisamente una mano mi afferra e mi trascina fuori dal campo di battaglia, lungo un sentiero appena evidente, in apparenza deserto.
«Conosco una strada alternativa, fidati!», urla il mio compagno, nel tentativo di coprire il martellante folk tirolese che incita le truppe ormai traslucide per il sudore misto a crema protettiva.
Prendiamo a capofitto una linea sottile che attraversa il ripido ghiaione, alla base della parete, sotto gli occhi attoniti delle truppe d’assalto che puntano alla vetta lungo paurose linee di roccia apparentemente inaccessibili.
Il fragore delle grida si fa più flebile,
il canino latrato si esaurisce, le nebbie infine si diradano lasciando spazio ad un sole glorioso che getta sulla scena un enorme fascio di luce.
La discesa, ora ripida e incalzante, assume le proporzioni di un’ignobile fuga, assorbe tutte le nostre energie in un vortice di sabbia e ghiaia giurassica sollevata dal nostro incedere.
Siamo atterriti dalla duplice paura di essere raggiunti dal fatal colpo nemico o dalla giusta punizione che spetta al disertore.
«Non c’è un minuto da perdere«, insiste il mio compagno trafelato, la divisa in goretex vergognosamente sgualcita, lo sguardo fisso sull’orologio, «dobbiamo raggiungere il fondovalle prima possibile, dobbiamo anticipare il grande rientro».
Il grande rientro!
Dannazione!
Avevo dimenticato l’allarme lanciato via radio dal controspionaggio per evitare lo spaventoso budellone ed affrontare una ritirata intelligente.
Il gommoso, ferroso e oleoso rombo crescente
sembra anticipare l’inevitabile, quando scorgiamo luccicanti al sole le superfici cromate dei mezzi motorizzati, pronti ad accogliere i fuggiaschi in ritirata, per condurli incolumi oltre la linea del Piave.
Senza indugio saliamo sul nostro metallico destriero ed affrontiamo il nastro d’asfalto ormai bollente.
Rivolgiamo preoccupati un ultimo sguardo dietro di noi, dove centinaia di omuncoli si dibattono frenetici ai piedi dell’alpe testé conquistata, il terrore negli occhi nel dover affrontare il grande rientro.
Con un peso nel cuore divoriamo la strada deserta davanti a noi, consapevoli che pochi di loro torneranno al paese natale in tempo per la cena, molti di loro prenderanno d’assalto pizzerie e autogrill, esosi sciacalli che corrono impietosi in aiuto delle vittime del grande rientro.
5 commento/i dai lettori
Partecipa alla discussioneBello, ben scritto e divertente;, ma forse con un pizzico di superiorità morale alpinistica di troppo?
Il rischio in effetti è quello di porsi dalla parte del “giusto” e giudicare dei comportamenti “sbagliati” ma legittimi, per questo ho forzato lo stile cercando di inserire un po’ di ironia..che è anche autoironia, perché dentro nella folla che ho descritto ci sono molti atteggiamenti “montanari”
spassosa ed efficace tralsazione, andrebbe declamata con una di quelle voci stentoree dei documentari del EIAR :D
in effetti mentre rileggevo il tono era quello, e devo dire che l’idea mi è venuta leggendo le cronache di antonio berti sulle vicende della prima guerra mondiale
La foto che apre e chiude il post sembra una scena tratta da “Uomini Contro”! Punta Gallina? Montagna distopica ma terribilmente reale… Al Dolomitenhof parcheggiai anch’io anni fa, terrorizzato di ritrovarmi le Dolomiti di Sesto invase dagli Unni, eppure per quella notte trovai il Bivacco de Toni vuoto…