Fenomeni di magnetismo verticale

di Gabriele Villa (Ferrara)

Arrivato all’età in cui riesco a vedere il sentiero della mia vita di cittadino integrato, escursionista e alpinista pendolare nel tempo libero, ho scoperto ciò che ha orientato il mio girovagare tra le montagne dolomitiche, è un fenomeno che mi piace chiamare magnetismo verticale.
Il primo esempio risale all’estate 1962 quando, quindicenne in vacanza presso gli zii materni a Pecol di San Tomaso Agordino, assieme a mio cugino Giulio, da Mont de Sòra salimmo verso quello che lassù chiamano Ciamp Boai, alle pendici del Sasso Bianco, arrivando oltre i duemila metri e fummo costretti a tornare dai richiami della zia Armida.

Quel giorno sentii l’impulso irresistibile di salire, l’attrazione della cima, e avrebbero potuto essere i prodromi dell’esplodere di una passione se in un’escursione successiva, risalendo il fianco roccioso di una cascata, non avessi rischiato di precipitarvi dentro: acqua e timore del vuoto diventarono le mie fobie, al punto di impedirmi perfino di andare in seggiovia.

Nell’agosto del 1971, sul sentiero Tivàn, giunti in vista della ferrata degli Alleghesi, scattò ancora il magnetismo verticale e, dopo un’accesa discussione a quattro con chi voleva salire la ferrata senza nessuna attrezzatura, prevalse la mediazione di affrontare la via normale e l’esperienza esasperò la mia lotta interna tra la fobia del vuoto e le forti sensazioni offerte dai tremila metri del Civetta.
Dopo quella gita comprai gli scarponi e lo zaino, ma… la mia iniziativa non andò oltre, fino a che vidi una foto della ferrata Cesco Tomaselli alla cima Fanis Sud; nell’estate del 1974, Giorgio De Donà mi ci accompagnò, dopo avermi prestato un cordino da sette millimetri e un moschettone, senza casco, né imbragatura.

Quella fu l’esperienza della svolta perché potei constatare come la forza d’animo, trasmessa dal magnetismo verticale esercitato da una cima, potesse vincere la fobia.
L’anno successivo mi iscrissi alla sezione CAI di Ferrara e durante l’estate nbso arrivarono le prime arrampicate con gli amici Giorgio e Bruno De Donà, diventati nel frattempo alpinisti.

Conscio delle mie ataviche paure, mai avrei pensato di poter fare il capocordata ma capitò anche quello e nel 1979 successe anche di più perché, durante un’escursione in Val Canali, attratto dalle forme slanciate del Campanile Negrelli, individuai una linea di camini che non era mai stata salita e, successivamente, su quella riuscii ad aprire la prima via nuova.
Avanzavo faticosamente sulla scala dell’esperienza personale, mai affrancato completamente dalle paure, e ogni volta che ho varcato i confini di una fin troppo ragionata prudenza, è sempre stato in conseguenza di quel magnetismo verticale che ogni tanto mi prendeva, o per una cima, o per una singola parete.
Così è stato nel 1983 per l’Agner, un sogno realizzato, che ci impegnò per diciassette ore dal bivacco Cozzolino al bivacco Biasin, risalendo il magnifico spigolo Nord.

In quello stesso anno conseguii il titolo di Istruttore Regionale di alpinismo e la sezione di Ferrara mi affidò la direzione dei corsi roccia: insegnare mi piaceva così tanto da sacrificare in parte la mia attività di arrampicata, sicché dovettero passare vent’anni prima che ritornassi a sentire i brividi del magnetismo verticale.
Successe quando due amici mi mostrarono le foto del Colbricon, una montagna “scura” perché composta di porfido, con linee attraenti e andammo ad aprire una via nuova che chiamammo “Nidi d’Aquila”; qualcosa di simile si ripeté nel 2006 quando, oramai vicino alla soglia dei sessant’anni, pensavo di non avere più l’età per certe scalate e, invece, realizzai uno dei sogni della vita salendo con due amici la Comici – Dimai alla Cima Grande di Lavaredo.

Da ultimo, l’estate scorsa, ho scoperto che il magnetismo verticale, non è proporzionale alle difficoltà di scalata, infatti, è successo salendo una cima prativa, però molto slanciata, senza nemmeno conoscerne il nome, arrivando in vetta da solo e provando un intenso sapore di alpinismo.
Era la Torre Dusso nel gruppo del Cernera e a essa devo riconoscenza perché mi ha fatto riprovare sensazioni quasi dimenticate e mi sono reso conto che il sentiero continua e fin che si riesce a provare il magnetismo verticale c’è speranza.