Nella macchina del tempo in cui l’alpinismo si trasformava.
Iniziare a leggere l’intervista a Luisa Iovane per me ha significato essere avvolto da un’atmosfera particolare, come fossi entrato in una specie di macchina del tempo, o meglio, in un vortice che mi ha risucchiato indietro di almeno trentacinque anni.
Complimenti a Michela Canova, che è riuscita a mettere in luce la sua intervistata quasi con discrezione, senza indulgere nel personalismo, anzi, anticipando fin da subito una collocazione “storica” quanto mai opportuna e pertinente con la storia personale di Luisa.
“Parlare con lei della sua vita è attraversare il periodo di trasformazione dell’alpinismo, dalla dura conquista dell’alpe scarponi ai piedi, alle quasi impossibili salite strapiombanti in scarpette leggere – annuncia fin da subito – ma è anche riavvicinarsi a un vero stile di vita, oggi forse difficilmente riproponibile, fatto di estati intere passate sulle Dolomiti a scalare, armati di puro, libero divertimento, regolato però da un’etica ferrea”.
Questo mi fa attribuire a Michela una “approfondita conoscenza storico-alpinistica e una notevole intuizione”, e ciò lo trovo in qualche modo sorprendente per una della “classe 1971”.
Il loro alpinismo (come quello di molti altri di quella generazione) è stato soprattutto uno stile di vita e, a mio modesto parere, oggi non esiste più.
Personalmente, ho conosciuto Luisa Iovane, soltanto per interposta persona e ne ho seguito il percorso di alpinista e arrampicatrice da semplice appassionato ma, “classe 1947”, ho vissuto il periodo storico con la fortuna di avere conosciuto alcuni alpinisti “importanti” attraverso i quali qualche cosa di quel periodo “evolutivo” credo di avere capito, pur avendolo vissuto dal basso della mia esperienza di alpinista della domenica e “quartogradista recidivo”.
Infatti, man mano che si dipanava l’intervista e se ne delineava il percorso cominciavo a pensare, “ecco, tra un po’ arriva Giancarlo… Luisa non può non parlarne…” ed eccolo comparire, infine: “Cominciai a contare le ripetizioni delle vie del libro delle Cento Scalate Estreme (il che dice qualcosa solo a quelli della mia generazione) e a fine stagione ebbi il piacere di riempire con le mie salite almeno tre pagine del libro delle ascensioni del CAI. Anche durante l’estate successiva del 1977 feci base al Pordoi e Giancarlo Milan di Rovigo mi fece fare il salto di qualità dai sesti gradi classici alle prime o seconde ripetizioni di salite come la Via dei Fachiri alla Scotoni, la Bellenzier alla Torre d’Alleghe, o la Ronchi alla Cima d’Auta.”
Proprio Giancarlo Milan è “l’interposta persona” di cui dicevo prima, attraverso il quale ho conosciuto meglio Luisa Iovane, perché nel 1977, dopo avere iniziato ad arrampicare nel 1975, frequentavo assiduamente il negozio Milan Sport ed il gruppo di ragazzi che lui, Istruttore Nazionale di Alpinismo, stava perfezionando nell’arrampicata con l’intento di formare una scuola presso la sezione di Rovigo.
Sapevo che scalavano ad altissimo livello e io mi meravigliavo dei racconti che me ne faceva nei numerosi sabati che mi vedevano al negozio, a Rovigo, anche perché la sua compagna di scalata, la “Luisina” come la chiamava lui, aveva soltanto diciassette anni.
Le note relative a quelle scalate le avrei lette a distanza di trent’anni, nel 2009, su un piccolo notes dalla copertina verde, rilegato con una spiralina bianca, il diario di arrampicata di Giancarlo Milan, affidatomi dalla moglie Nadia per preparare la presentazione di una serata commemorativa di Giancarlo nel venticinquesimo della morte, avvenuta al Pizzo d’Uccello sulle Alpi Apuane nell’agosto del 1984.
Veramente impressionante la sequenza di arrampicate inanellate da fine giugno a fine agosto 1977: Via Maestri alla Roda di Vael; Via dei Fachiri a Cima Scotoni (3° ripetizione, 1° femminile, 1° italiana senza bivacco); Via Rebuffat all’Aiguille du Midì; Via Ronchi alla cima d’Auta Orientale (3° ripetizione, 1° femminile); Via Bellenzier alla Torre d’Alleghe (2° ripetizione, 1° femminile); Via Comici al Salame del Sassolungo (con Almo Giambisi); Via Tissi al Pan di Zucchero; Via Aste-Susatti a Punta Civetta; Via Egger alla Cima Piccola di Lavaredo; Via Graffer al Campanile Basso; diedro Aste-Navasa al Crozzon di Brenta.
Il sodalizio tra Giancarlo e Luisa durò lo spazio di un’estate, quella del 1977 appunto, poi lei incontrò Heinz Mariacher e a me capitò di vederli a Malga Ciapela, credo nell’estate del 1979, mentre assieme al mio compagno di arrampicata si cercava un prato per mettere la tenda per la notte. Era il periodo che lei racconta come “niente di particolare, era la vita che facevano (e fanno) d’estate arrampicatori con molta voglia di scalare, tanto tempo a disposizione e pochi soldi. Almeno allora era abbastanza normale dormire in macchina ed era meno “malvisto” di oggigiorno. Si cercava di non restare troppo a lungo nello stesso posto, così si scoprivano gruppi montuosi diversi”. Ricordo un furgone, mi pare fosse un Wolkswagen, adattato a camper e loro che vi armeggiavano intorno con la roba da bivacco, ma la sensazione fu che avessero in corso una discussione e così ricacciai la voglia di andarli a conoscere, magari anche solo per stringere loro la mano.
Un altro ricordo, anche quello fu solo un incontro flash, in una di quelle palestre “non troppo distanti da Mestre”, come racconta Luisa (e nemmeno tanto distanti da Ferrara, aggiungo io), precisamente a Lumignano, forse all’inizio degli anni ’90.
Luisa faceva sicura ad Heinz che era su una quindicina di metri alle prese con uno strapiombo che a me pareva orripilante, attaccato in una maniera che a me sembrava più che precaria, mentre invece lui stava studiando il passaggio e lei paziente attendeva il suo arrivo in sosta. Visto il momento particolare non era certo il caso di indugiare in saluti o convenevoli.
Li ho rivisti, stavolta in tenuta “borghese”, a inizio maggio del 2009, al Trento Filmfestival in una serata dedicata alla storia dell’arrampicata in Valle del Sarca uno spettacolo che ho goduto e al quale Luisa e Heinz hanno portato il loro contributo, attori protagonisti di “quell’epoca in cui l’alpinismo, precedentemente in bianco e nero, acquisisce una miriade di tonalità colorate. Sulle pareti compaiono avventurosi scalatori in salopette rossa e gialla, indossano Superga e frack anche quando superano i passaggi più ostici, vivono mesi interi in quota, stabilendo come campo base una casa cantoniera o l’abitacolo dell’auto, incatenano gradi estremi senza far uso dell’artificiale, rinunciando piuttosto, e lasciano basiti i molti ancora legati all’alpinismo tradizionale”. Luisa aggiunse di certo un tocco di gentilezza e di allegra serenità in quel mondo di climbers allora coniugato quasi esclusivamente al maschile.
Io ero tra quelli che, formati dall’alpinismo tradizionale, spesso “restavano basiti” di fronte a certe moderne prestazioni, probabilmente non capivo fino in fondo ciò che stava succedendo al mondo dell’arrampicata e dell’alpinismo di conseguenza.
Ero piuttosto un conservatore, sicuramente nel vestiario e nel continuare con l’uso degli scarponi ma certi personaggi, che ben rappresentavano quel cambiamento, m’incuriosivano e mi ispiravano simpatia (non tutti a dire il vero…) tanto che mi è successo qualche volta di legarmi in improbabili cordate che, almeno a livello cromatico e di accostamenti di diverso abbigliamento, apparivano quantomeno stravaganti.
Ora sono passati parecchi anni da allora e la trasformazione dell’alpinismo di cui Michela Canova scrive in apertura di intervista si è probabilmente compiuta.
Anche il mondo attorno è cambiato nel frattempo, non solo l’alpinismo, e che sia evoluto in meglio è tutto da vedere, soprattutto se “i ricordi di Luisa trasportano in un periodo molto recente, eppure quasi fiabesco. Esiste ancora un alpinismo che è stile di vita?”
Quel mondo era fiabesco anche perché allora non c’era tutta la tecnologia di oggi, non c’era internet che permette di sapere tutto di tutti in tempo reale e senza confini territoriali, non c’erano gli sponsor a suggerire o guidare azioni, a pubblicizzare eventi alpinistici prima ancora che accadano, a togliere spontaneità e genuinità alle azioni di molti alpinisti, anche se per fortuna non di tutti.
E’ nella spontaneità dei gesti, nell’autenticità delle passioni, nell’assenza di interessi commerciali condizionanti che risiede l’aura fiabesca di quei tempi testimoniati da Luisa Iovane e ispiratori della sua storia alpinistica, così come erano anche patrimonio del mio indimenticato amico Giancarlo Milan, suo compagno di scalate nell’estate del 1977.
Il loro alpinismo (come quello di molti altri di quella generazione) è stato soprattutto uno stile di vita e, a mio modesto parere, oggi non esiste più.
Per cui la domanda conclusiva “Esiste ancora un alpinismo che è stile di vita?”, sottende già la risposta e non può, purtroppo, che essere negativa.
5 commento/i dai lettori
Partecipa alla discussioneCiao, articolo bellissimo e denso di emozioni. Per chi come me non ha conosciuto quegli anni di alpinismo Libero credo sia una grande emozione leggere ed immedesimarsi fra le righe. Grazie ancora. Cristiano
Grazie a te Cristiano, per questo tuo commento che mi dà il piacere di sapere che non ho solo scritto di rimpianti o nostalgie personali, ma sono riuscito a trasmettere l’esperienza di un periodo riuscendo ad emozionare e coinvolgere.
Esatto, poteva esagerare, essere aggressivo. Lui aveva un suo modo di essere che non cambiava a seconda degli interlocutori. UNA marcia. So di altre persone che avevano avuto, con lui, un inizio difficile. Ma a distanza di tanti, tanti anni, e’ una persona che ho ancora molto presente. Sono in contatto con Jamie, via mail. Tante volte le ho citato delle “scemenze” di suo padre e lei si stupisce di come lo ricordi e di come le mie citazioni glielo ricordino. Vive e presenti. E bada che io ho conosciuto moltissime persone. Potrei averlo completamente cancellato dalla mia memoria. Invece non e’ cosi’. Dammi per cortesia la tua mail. Vorrei scriverti delle cose che non credo interessino al pubblico di questo blog.
Ho letto con molta gioia e una certa nostalgia il tuo articolo e mi ha fatto tanto piacere incontrarci Giancarlo. Pensarti al suo negozio, di sabato, mi ha fatto venire in mente una di quelle sue storielle… “Vorrei dei sotto-pantaloni da sci” dice il cliente nel suo negozio. “Vuol dire MUTANDE LUNGHE” rispondeva lui, aumentando il volume della voce sulla parola “mutande”. Quanto gli piaceva quella storia delle mutande lunghe. Ma c’era qualche cosa di profondo nel suo scherzo, c’era il desiderio di dire le cose come stanno, di chiamarle con il loro nome, non di cercare eufemismi. Le mutande sono mutande, ecco l’ idea.
L’ autunno del 1977 sono andata con Giancarlo in spedizone all’ Annapurna 3 e ricordo i suoi racconti delle salite con Luisa. Mi hai fatto venire in mente tante cose. Grazie.
Grazie a te, Riccarda, il piacere è stato mio nel leggere questo tuo prezioso commento.
Forse farà sorridere qualcuno il fatto che a distanza di trent’anni ci sia qualcun altro che porta dentro di sé ricordi così forti di una persona pur partendo da episodi apparentemente così “semplici” come quello che hai raccontato tu. Eppure la grande forza di Giancarlo Milan stava proprio in questa sua spontaneità, priva di eufemismi o giri di parole, a volte goliardica all’apparenza, altre volte di una sincerità che poteva arrivare ad essere “ruvida” se non quasi brutale. A me è capitato di sperimentarla sulla mia pelle ma l’ho potuta apprezzare perchè ne ho tratto insegnamenti preziosi e chi lo ha conosciuto può capire di certo cosa intendo dire.