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Il 9 ottobre del 1963 io avevo 12 anni e ricordo che la sera del giorno successivo risalivano dal fiume verso il mio paese, una trentina di chilometri a valle di Longarone, uomini sporchi di fango con le facce scure come di giganti tristi: contadini e operai che da volontari coordinati alla meglio dal medico condotto e dal maresciallo dei carabinieri si erano prodigati per il recupero delle salme delle vittime del disastro.
Dalla memoria sempre viva segue questo racconto a 50 anni dal disastro.

Il suono ostinato di una campana in terza minore col silenzio, un piccolo corteo funebre: croce astile, una ventina di uomini più vecchi che anziani, il prete, le avemarie, il feretro e una decina di pie donne a rispondere santemarie.
vajont_08– Chi è morto?
– Armando.
– Ah, il vecchio che stava giù al fiume.
– Sì, aveva passato la novantina e gli ultimi anni se li è fatti in casa di riposo.
– Già, con l’età non si scherza.
– Era uno dei pochi ancora lucidi in quell’anticamera del cimitero. Curava lui giardino e orto, poi, un po’ d’aria fredda, un accidente e via, eccolo qua: bella età comunque.
– Ma, è sempre vissuto solo?
– Quasi, era il più anziano in famiglia. Aveva un fratello emigrato in Svizzera, due sorelle sposate in Germania e lui a badare ai suoi vecchi e alla terra. Da solo teneva venti bestie senza contare conigli e galline. Se qualcuno gli dava una mano, lui ricambiava col suo trattore: trasporti, arature…
– Era grande e grosso con faccia da cattivo del cinema americano: da ragazzi avevamo una gran paura di lui, andavamo a rubargli la frutta e lui fingeva di non vedere, credevamo fosse sciocco, ma se qualcuno aveva il coraggio di chiedere, lui dava il doppio.
– Ogni domenica alla messa e poi, unico svago, un’oretta all’osteria a chiacchierare con qualche amico di bestie, di terra…
– Politica?
– No, mai, non mi risulta si sia mai impicciato, anzi una volta rispose a un saputello che lo voleva prendere in giro più o meno così: “troppi democristiani, pochi cristiani e poi comunisti senza Dio e quattro fascisti malati di nostalgia”. Questi ultimi, al loro tempo, lo volevano castigare con olio e bastone perché non andava mai alle manovre del sabato, ma considerando un po’ statura e forza gli giravano in largo. Dicono che un giorno fosse scappato il toro del vicino e lui, da solo, lo avesse bloccato e messo al suo posto come   si fosse trattato di un cagnolino.
– Ma s’è fatto guerra e prigionia: fronte Greco-Albanese, poi Germania, poi a casa a sistemare i fratelli piccoli, a badare ai suoi vecchi finché non è rimasto solo e da solo è sempre vissuto fino a l’altro ieri. La vita! Mai sentito nulla di male sul conto suo. Pace all’anima sua!

Il dunque di Armando è tutto qui? Una vita lunga, povera, banale se non fosse per un caso che capitò tanti anni fa, una cinquantina uno più, uno meno, giù al fiume. La causa stava più in alto, volle scendere in basso e spinta dall’avidità spazzò via un paese in una sola sciacquata.
vajont_07Si va al diavolo in un bel funerale, cullati dal fango, danzando il canto dell’acqua sull’adagio di modo minore dopo il chiasso della prima ondata.
L’atonia della morte si sazia sul basso ostinato della corrente tra la voce stridula dei rottami e nel silenzio dei corpi che vanno incontro al mare a gruppi, a famigliole. Più a valle il traffico s’imbroglia e riposa nelle secche tra ghiaia e pantano, s’impiglia nel risucchio di tronchi scheggiati, indugia nelle pozze, si pianta nei dossi.
Il fiume si perde in torrenti e rivoli: l’acqua chiede all’acqua la strada antica tra argine e sponda, contende al greto la sciagura, implora una pietà tardiva nel lezzo infernale che guida il corteo nell’ultimo viaggio, nel sonno senza fine.
Armando, allora, era abbastanza giovane per non capire le cause e ben maturo per reagire agli effetti. Armando, quella notte, dormiva. Gli pareva di vegliare sulle miserie del suo piccolo regno, ma dormiva. Forse lo spazio sognato non era il suo, eppure gli ricordava i suoi campi, poi il greto, poi il fiume, come se una mano ignota li avesse traslati altrove, sopra un nulla gigantesco.
Vedeva indistinte figure di gente, tanta gente che affollava una piazza: piazza? Nessuna costruzione, niente case. E quella folla? Una festa? Un comizio? E quella gente zitta, immobile? Che stesse aspettando qualcosa? Qualcuno?
Sogni e pensieri che infestavano la testa poco avvezza di Armando ancora immerso in quel sonno agitato. Forse una specie di suono, non rumore, come l’eco di una banda militare: percussioni, fiati, ottoni strepitavano lontani, lontani divorando la distanza, mutando il mormorio in fragore schietto, poi in botto secco contro i vetri delle finestre.

Temporale? Non piove!
Ma da fuori arriva il chiasso di un fiume inconsueto: il tonfo lungo, profondo in compagnia dell’eco querulo della sua stessa voce. Grandine non era, niente vento: il baccano arriva dalla corrente, vedere, bisogna vedere!
vajont_10Armando si trascinò fuori dal letto con la confusione in testa, si vestì in fretta, inghiottì il dubbio che lo tormentava e seguì la paura giù per le scale.
Paura Armando?
Inquietudine, un certo timore che nasce dalle novità avvertite e non ancora misurate. Armando aprì la porta, uscì fuori nel buio pesto. L’ansia non era paura, parente prossima, ma non paura, anche se l’affanno del respiro e il tremito alle ginocchia indicavano la paura.
Paura Armando?
La notte era ancora notte, tuttavia cedeva qualche immagine all’istinto, all’abitudine, perché l’oscurità tagliava netti i contorni delle figure grosse come la stalla e gli alberi che parevano buchi neri nell’oscurità, mentre lo spazio di fondo appariva meno cupo. Fissare i particolari era un’impresa d’estro e di scienza come individuare le singolarità nel travaglio dei pensieri che scorrevano davanti agli occhi bene aperti, alterati dalla paura.
Paura Armando?
Eppure qualche accidente doveva aver combinato quella cosa che si agitava nel fiume mormorando sinistra. Ma l’uomo non vedeva e non capiva. Distinse una nebbia chiara nel fetore dell’aria, troppo calda per l’ora e la stagione, un nebbione più denso sul greto, andava, veniva, impennava la sua coltre impalpabile allargandosi fin sopra i pioppi e divorando le acacie.
Armando non pensa, Armando non ragiona, prese il sentiero del fiume andando a naso e tagliando la nebbia con passo deciso. Attraversò il suo prato, superò la macera della siepe, cercò un buco a tentoni, si cacciò nel bosco rado e seguitò inciampando nei rami che sembravano aria, scostando l’aria che pareva un ramo. Poi scorse i sassi della riva: “L’acqua digià?”

Armando distinse una massa scura che s’agitava come bollisse trascinando con sé ogni sorta di rottami. Il tanfo cresceva e l’uomo non capiva quale diavolo avesse fabbricato una pentola così grossa. Armando se ne stette ritto in faccia al fiume trattenuto da uno stupore che non era paura anche se, in parte, spingeva alla fuga.vajont_09 Ma c’era un grumo biancastro pochi passi distante, la sagoma insolita di un sasso, troppo strana per essere pietra. Altro non era, non poteva essere, eppure quella cosa era un corpo nudo, un cadavere gettato dalla corrente a dormire sul ciglio di un fosso: lo disse la luce indolenzita che già tracciava i confini della sciagura.
Armando si avvicinò alla salma strappando il coraggio dal groviglio dei timori accorsi in fretta a mozzargli il fiato. Guaio minuscolo la paura in confronto al disastro appena consumata dall’acqua malvagia di un fiume impazzito che cianciava ancora stridulo e arrogante.
Ma giungevano altri suoni, altre voci, venivano da dentro, picchiavano nel petto, pulsavano alle tempie supplicando un soccorso inutile, simili al lamento di una litania: “Siamo tanti Armando, siamo troppi!”
Forse la morte sghignazzava soddisfatta del lavoro svolto senza contratto. E mentre Armando inseguiva la fonte di quei richiami sussurrati arrivarono i curiosi subito appagati dall’orrore del primo impatto. L’uno aspettava che fosse l’altro ad continuare e non fu facile imbrigliare il coraggio perduto tra i sassi del greto. Ma nessuno si mosse a ritroso, tutti scesero verso il fiume attratti dalla pietà, incitati da Armando che improvvisava dirigendo il vano soccorso.
Fu allora che Armando divenne un capo, il più fidato. Indicava, agiva, sbrogliava i grovigli di rottami come fossero mucchi di fieno, lui, con la sua forza famosa scostava travi e macigni per liberare le salme, lui ricomponeva i poveretti vincendo il ribrezzo per lividi e mutilazioni.

Nessuno conosceva il fiume meglio di lui, almeno lungo il tratto che lambiva il suo podere e a monte e a valle dove si perdeva lo sguardo, il contadino lo considerava parte di sé, un vicino brontolone ma buono in sostanza anche quando gonfio e torbido minacciava i suoi campi. Ma questa volta l’amico era andato oltre, fuori di senno, un senno non suo.
vajont_03L’acqua ormai scorreva tranquilla tra le ghiaie della riva come un serpentone innocuo, indifferente. La sua voce suonava consueta, un gorgoglio familiare dal quale uscivano i richiami dei volontari, per quanto dimessi, ma c’era dell’altro, come un soffio di echi estranei senza tono e senza tempo sopra il traffico della pietà umana e sotto l’ombra della sera che s’allungava sul piccolo mondo sconvolto.
“Ci fosse qualche impiccione di meno, ci fosse un po’ di silenzio.” Pensava Armando intento al suo lavoro cercando di coprire il coro irreale di voci sovrapposte, timide, risolute: “Armando, sono nel fango, scava Armando: sono un ufficiale! Sono una signora! Un avvocato! Barbiere! Fornaio! Maestra!… La morte ci ha tolto professioni e mestieri, ci ha fatti uguali, Armando, ha nascosto i corpi anonimi che tu devi trovare, ripulire.”
Cadaveri che avvezzano alla morte, tanti, troppi, disseminati lungo il greto. “I morti non parlano!” Si diceva il contadino ora stanco e scosso lasciando libero sfogo alle voci estranee. Forse la brezza del crepuscolo combinava quel chiacchierio sommesso piegando le stoppie, soffiando leggera tra salici e ontani, o era la fatica che reclamava il riposo perché la luce cedeva verso il rosso e s’allontanava incalzata dall’ombra padrona dell’ora e del fiume.
Armando si diresse verso il paese con l’ultima salma tra le braccia e una lacrima frettolosa sul volto fiero.

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foto di Bepi Zanfron

Mario Ferrazza autore del post

Mario Ferrazza | Pensionato, escursionista, buon camminatore, mediocre scialpinista, pessimo fotografo. Iscritto al CAI Feltre dal 1988, ha percorso le Dolomiti in lungo e in largo, con qualche incursione nelle Alpi Occidentali e Centrali, compreso un paio di tracciati classici in Nepal. Vivo a Mel (BL).

3 commento/i dai lettori

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  1. Gioacchino Lot il4 novembre 2013

    Che gradita sorpresa! Mai mi sarei aspettato che tu, Mario, coltivassi la passione dello scrivere racconti.
    Oltretutto un bel racconto di fantasia, sì, ma che prende spunto da episodi di vita vissuta della nostra gente, umile e genuina. Complimenti!
    Con il tempo, leggerò anche l’altro tuo racconto, che credo sia altrettanto interessante.

  2. Lorenzo Filipaz
    Lorenzo Filipaz il14 ottobre 2013

    Gran bel racconto, la soggettiva sul soccorritore che potrebbe racchiudere in sé tutti i soccorritori valligiani all’alba di quel triste giorno, la resa dettagliata della sua umiltà e semplicità esistenziale e il contrasto con qualcosa che semplice non fu, ma anzi fu tremendamente complesso, inconcepibile e al di fuori dei percorsi talora pur violenti della natura, narra quella strage (perché strage fu e non tragedia) in tutta la sua portata meglio di tanti altri racconti scioccanti ma senza il conforto del vissuto, proprio come alcune fotografie rendono l’entità gigantesca e spaventosa di uno scenario grazie alla presenza di una figura umana nel quadro a dar misura della vertigine, in questo caso dell’orrore.

  3. maria antonietta il13 ottobre 2013

    E’ un racconto che toglie ogni parola e lascia il posto al silenzio, dolore e rabbia anche a distanza di tanti anni. Grazie Mario per le emozioni che con la Sua ottima scrittura riesce a comunicare

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