Luce radente sul Tonghsiong Glacier (ph. Anindya Mukherjee, 2011)

Luce radente sul Tonghsiong Glacier (ph. Anindya Mukherjee, 2011)

capitolo . 14

Ettore attese. Davanti ai suoi occhi gli alpinisti faticavano lenti, e quando minacciavano di riposarsi per prendere fiato gli spronava di botto il grido di Charles Evans, – Attenzione, ragazzi! – Quasi fossero consapevoli del pericolo e dello scorrere del tempo, gli alpinisti indugiavano in una immobilità intelligente, fermi a mezza forza, con una pesante pala poggiata sul fianco. Poi, al «Via!» del capo, compivano lo scarico della neve e ne cominciavano un altro, con un rumore simile all’alitare d’un soffio tra gli ingranaggi di una macchina.

C’era nei loro movimenti l’accorta prudenza della riflessione e la decisione di una forza possente. Questo era il loro compito – blandire pazientemente un Campo Base sconvolto sotto la furia delle valanghe e ristabilire la sicurezza delle tende per contrastare il vento. A volte Charles Evans abbassava il mento sul petto, e gli guardava aggrottando le sopracciglia come immerso in pensieri.

Quella voce che aveva la virtù di allontanare l’uragano dalle orecchie di Ettore ricominciò: – Prendete con voi gli uomini… – e d’improvviso si spense.

– Per che fare, padre?

Era l’alba. Un colpo secco, repentino, imperioso, risuonò come uno sparo. Tre paia d’occhi corsero sul pertugio della tenda e videro in alto sulla montagna staccarsi, quasi la fine del mondo, una parete di ghiaccio, dalla quota massima dei campi alti in direzione del Campo Base. E allora nella tenda materiali quei tre uomini provarono la sensazione della fine imminente di tutto ciò che era il loro piccolo mondo, di una strana contrazione dei loro cuori come se essi raccogliessero tutte le loro forze per l’estremo saluto.

– Addio! – ruggì Evans.

Nessuno, nemmeno il capospedizione Bruno Brunelt, che rientrato solo sulla tenda mensa era rimasto a vedere avanzare una bianca nuvola di neve a un’altezza tale da non credere ai suoi occhi – nessuno avrebbe mai saputo la violenza di quella valanga enorme, e del vuoto spaventoso che la bufera aveva scavato dietro quell’avanzante muraglia di ghiaccio.

Correva incontro al Campo Base, e tutti gli uomini si fermarono un istante, quasi a prendere l’estrema visione, prima dell’ultimo respiro. Le luci di tutte le tende tremarono, la tenda materiali si oscurò. La tenda mensa vibrò. Con uno scroscio lacerante e un tumultuare vorticoso, frenetico, schiantarono sui bordi del campo tonnellate di neve, come se gli uomini fossero stati sulla banchisa di un porto glaciale ad attendere l’onda di piena.

Laggiù si guardarono inebetiti.

– Spazzata da un capo all’altro, perdio! – urlò Ettore.

Il Campo Base precipitò nel panico, parve rovinare oltre il limite destro della morena. La tenda materiali s’inchinò paurosamente sull’avanti, sotto l’onda d’urto della valanga. Dal suo interno giunsero orribili voci di terrore, di uomini che si avvinghiavano. Le tende si tennero aggrappate a quello spaventoso terreno tanto a lungo che Daring Sherpa cadde sulle ginocchia e carponi si mise a strisciare quasi volesse scappare dalla tenda materiali, e tanto a lungo da permettere a Charles Evans di girare pian piano la testa rigida, incavata, con la mascella pendente. Ettore aveva chiuso gli occhi, e il suo volto in un istante acquistò la dolcezza vuota e senza speranza d’un cieco.

Alla fine il Campo Base si schiarì lentamente, baluginando, come se dalla profondità di una caverna si uscisse a riveder il giorno.

– Un’altra come questa ed è spacciata, – gridò il vice-capo spedizione.

Egli ed Ettore si guardarono, e lo stesso pensiero s’insinuò nel loro spirito. Il capospedizione Bruno Brunelt! La tenda mensa sembrava essere stata spazzata via. Il pennone con la bandiera divelto, le altre tende ridotte a brandelli. Era la fine immediata.

– Correte! – esclamò Charles Evans con voce roca fissando con gli occhi spalancati e pieni di dubbio Ettore che gli rispose con un’occhiata indecisa.

Un ronzio via radio subito li tranquillizzò. La radio dava segni di vita e in un lampo una voce da fievole diventò squillante.

– A noi, ora, Daring Sherpa! – gridò Charles Evans.

La vita al campo riprese adagio adagio. Gli alpinisti scivolarono dentro e fuori le tende. Ettore appoggiò l’orecchio alla radio. La voce era lì. Gli diceva: – Raccogliete tutte le forze. Ho bisogno di voi ora. Io sto bene. Correte alla tenda cucina… –. E questo fu tutto.

– Padre? – chiamò Ettore. Nessuna risposta.

Si allontanò vacillando come uno sconfitto dal campo di battaglia. S’era fatto, non sapeva come, un taglio sul sopracciglio sinistro – un taglio profondo fino all’osso. Non se ne accorgeva affatto: le nevi del Thanglha gli erano piombate sulla testa in quantità sufficiente a rompergli il collo, e avevano ripulito, lavato, congelato quella ferita. Non sanguinava, solo era lì rossa e slabbrata: con quell’incisione sull’occhio, i capelli scarmigliati e l’abbigliamento in disordine, pareva avesse fatto a pugni con qualcuno e ne avesse avuto la peggio.

– Bisogna correre alla tenda cucina, dove sono stipate le attrezzature e i viveri di prima necessità –. Si rivolse a Charles Evans con un sorriso pietoso e incerto.

– Che cosa? – chiese violento Evans. – Attrezzature e viveri di prima necessità… Non me ne importa… – Poi, tremando in ogni suo muscolo ma affettando un tono paterno: – Ora, andatevene a soccorrere vostro padre, per amor di Dio. Voi alpinisti giovani mi farete rimbambire. E quel demente di medico che s’è gettato addosso al vecchio. Non lo sapete? Voialtri non vi reggete in piedi perché non avete altro da fare che salire in alto…

Queste parole fecero nascere in Ettore un principio di collera. Niente da fare, davvero… Fieramente sdegnato contro il responsabile dei materiali, se ne andò per dove era venuto. Nella parte laterale della tenda, il paffuto cuoco era riuscito a salvare il fornello a gas, muto come se avesse perso la lingua; l’aiutante invece ci dava sotto schiamazzando, come un pazzo furioso che avesse mantenuto ancora la capacità di fare il cuoco per future spedizioni.

– Eccolo qua finalmente un alpinista! Ehi! Non sareste capace di mandare uno di quei vostri compagni impauriti ad aiutarci a rimettere in piedi la cucina? Sembra sia crollata. Per tutti gli dei della montagna! E allora? ehi! Ricordatevi il regolamento «Alpinisti e portatori si devono mutua assistenza». Ehi! Avete sentito?

Ettore come un insensato attraversò il Campo Base, e l’altro, seguendolo con la testa, gli gridò dietro: – Non siete capace di spiccicare una parola? La cucina è fonte di vita? Come pensa sopravvivremo?

Una specie di frenesia s’impossessò di Ettore. Quando fu di nuovo fra gli uomini nelle tenebre – alpinisti e portatori – dietro il masso che faceva da riparo, si sentì deciso a torcere il collo a chi avesse fatto il minimo cenno di tirarsi indietro. La sola idea di una simile possibilità lo esasperava. Lui non poteva tirarsi indietro. Neanch’essi allora.

L’impeto col quale piombò fra gli alpinisti li trascinò. Quel suo continuo andare e venire – la foga e la rapidità dei suoi movimenti – li aveva già eccitati e stupiti; più che vedere avevano avvertiti quelle sue corse ed egli era apparso loro formidabile – preoccupato da questioni di vita o di morte che non ammettevano dilazione. Alla prima parola, uno dopo l’altro, docili, li sentì proiettarsi verso le tende in rovina con passi pesanti.

Non avevano un’idea chiara sul da fare. – Che c’è? Che c’è? – si chiedevano l’un l’altro. Sonam Sherpa, che aveva raggiunto Ettore, cercò di capire; il rumore d’una zuffa enorme in direzione della tenda cucina li sorprese: e i colpi violenti, rintronando in modo spaventoso nel nero della tenda appena raggiunta, mantenevano viva la sensazione del pericolo. Quando Sonam spalancò il telo della cerniera sembrò che un risucchio dell’uragano, attraversando i fianchi rocciosi del Campo Base, facesse roteare tutti quei corpi come un turbine di polvere: li colpì un clamore confuso, un tumultuare tempestoso, un vocio feroce, scoppi di grida che si dileguavano, e un trepestio di scarponi pesanti che si confondeva con i colpi del vento.

Per un istante restarono attoniti, affollandosi sulla soglia. Ettore si fece largo brutalmente fra loro. Senza aprir bocca si slanciò dentro. All’interno un altro gruppo di portatori, che lottava con follia suicida per sfondare i barili con le riserve e raggiungere il cibo, tirò a sé Ettore, ed egli scomparve sotto di loro come un uomo sorpreso da una frana.

Sonam Sherpa sconvolto gridò: – Presto. Tiriamolo fuori. Lo pestano a morte. Avanti.

Si lanciarono, schiacciando petti, mani, facce, inciampando in mucchi di vettovaglie, prendendo a calci rottami di latta; ma prima ancora che riuscissero ad afferrarlo, Ettore si levò dalla cintola in su frammezzo a una moltitudine di mani abbraccianti. In quell’attimo in cui era rimasto fuori di vista, aveva perduto guanti e berretto, s’era fatto al viso un striscio che gli correva fino al collo, gli s’era squarciata la cerniera della giacca. Un’autentica rivolta! La massa dei tibetani che lottavano al centro, all’apertura della tenda, si mise in movimento, scura, confusa, disperata, con un selvaggio balenar d’occhi al fioco chiarore delle lampade frontali mentre fuori soffiava sincopata la bufera.

– Lasciatemi stare, maledizione a voi. Sto benissimo, – strillò Ettore. – Sbatteteli fuori. Metteteli sotto vento. Avanti, fuori con loro. Sbatteteli contro il grande masso. Pigiateli.

L’irrompere degli alpinisti nel trambusto dell’entrata della tenda fu come un getto d’acqua fredda in una pentola in ebollizione. Per un istante l’agitazione si chetò.

Il grosso dei portatori s’era talmente aggrovigliato nella zuffa che gli alpinisti, unendo a catena le braccia e approfittando d’un inquietante momento di calma dell’uragano, con una sola formidabile spinta li spinsero fuori, come un blocco solido. Alle loro spalle capitombolava ancora riverso sulla fredda terra soltanto qualche corpo isolato.

Sonam Sherpa compì prodigi di forza. Aperte le lunghe braccia s’afferrò con le zampe ai due pali dell’entrata della tenda, riuscendo a fermare nella sua corsa un viluppo di sette tibetani che avanzavano minacciosi. Gli scricchiolarono le giunture; fece «Ah!» e quelli volarono da una parte. Ma l’aiuto cuoco si dimostrò ancora più intelligente. Senza dir niente a nessuno tornò alla tenda materiali, e vi prese alcuni rotoli di corde fisse che aveva visto ancora non utilizzate ai campi alti. Con questi vennero tirate delle barriere tra i massi prossimi alla tenda cucina.

In realtà non ci fu resistenza. La contesa, qualunque ne fosse stata l’origine, s’era cambiata in una mischia di cieco panico. In un primo momento i portatori s’erano lanciati dietro le vettovaglie sparpagliate, dopo lottarono per stare in piedi. Si acchiappavano per le vesti solo per non essere sbattuti qua e là dalla furia del vento. Chi riusciva ad aggrapparsi a qualcosa prendeva a calci quelli che si afferravano alle sue gambe e vi si tenevano stretti, finché non entrava qualcun’altro e sbatteva i contendenti ai limiti del campo.

La comparsa di quei diavoli bianchi li empì di terrore. Venivano a punirli? Gli individui strappati dal mucchio in mano agli alpinisti si afflosciavano: alcuni, trascinati per i piedi da una parte, inerti come cadaveri, avevano gli occhi spalancati, fissi. Qua e là un portatore cadeva in ginocchio come a implorar grazia; parecchi altri, resi indomabili dalla grande paura, dovevano essere scossi con uno schiaffo sul viso, e si chetavano; quelli che erano feriti invece si rassegnavano alle rudi cure battendo rapidamente le palpebre senza un lamento. Le facce grondavano un impasto di terra e sangue; sulle teste i lunghi capelli neri apparivano come setole di scope scarmigliate, dense di chiazze, escoriazioni, graffiature, contusioni, ferite aperte e tagli. Di questi eran causa sopra tutto gli arnesi da cucina che erano stati depredati per aprire lo scatolame. Qua e là un tibetano, dall’occhio inquieto, si curava un arto dolorante. Furono messi in gruppetti serrati, dopo una serie di scrollate per ridurli alla ragione, qualche schiaffo per calmare i bollenti spiriti e due parole d’incoraggiamento così brusche da suonar piuttosto come minacce. Disfatti, spettrali, sedevano in tante file al riparo del grande masso, e alla fine l’aiuto cuoco, aiutato da due uomini, si diede gran fatica da un punto all’altro, rafforzando le barriere di corda. Sonam Sherpa, avviticchiato con un braccio e una gamba a un paletto della tenda, lottava con un fornello a gas stretto sul petto, cercando di accenderlo, e ringhiando tutto il tempo come un industrioso gorilla. Le figure degli alpinisti si chinavano continuamente, con movimenti da spalatori, e tutta la neve veniva sbattuta di qua e di là per liberare i passaggi. Qualcuno tra questi recuperava frammenti di cibo, mettendoselo in tasca. Di tanto in tanto un alpinista si dirigeva verso i portatori a mostrare i danni con le braccia piene di rottami; e lo seguivano sguardi obliqui e dolorosi.

A ogni sferzata di vento i figli della Dimora delle Nevi seduti in strette file si piegavano in avanti di colpo, e a ogni fragore precipitoso le teste scarmigliate sbattevano tra di loro vocianti da un capo all’altro. Quando l’ululare del vento sibilante all’aperto del campo si calmò un istante, sembrò a Ettore, ancora tremante per gli sforzi fatti, che con quella sua lotta folle là dentro avesse debellato in qualche modo anche il tempo: gli sembrava che il silenzio avesse avvolto il Campo Base, un silenzio il cui la montagna percuoteva i suoi lati come un rimbombo di tuono.

Ogni cosa – tutti i detriti, come dicevano gli uomini – era stata sgombrata dall’entrata delle tende. Gli alpinisti in piedi tremavano dominando la distesa delle teste e delle spalle chine. Qua e là un portatore con un singulto cercava di prender fiato. Dove cadeva la luce piena, Ettore poteva scorgere gli zigomi scarnificati di uno, la faccia rossa e malinconica di un altro; teste piegate; oppure incontrava uno sguardo torbido su di lui. Si stupiva che tra i portatori non ci fossero stati morti; ma la gran parte sembrava all’ultimo respiro ed essi gli infondevano pietà più che fossero morti.

D’improvviso un portatore si mise a parlare. La luce illuminava a tratti la sua faccia magra, tirata; allungava il collo come un cane che latra. Dalla cucina giungeva il rumore di qualcosa che sbatteva e il tintinnio di posate rotolanti qua e là; egli tese il braccio, spalancò la bocca nera, e prese a gracidare con suoni gutturali, incomprensibili, che non sembravano appartenere a un linguaggio umano, producendo in Ettore l’emozione strana di un animale che cercasse di parlare.

Altri due cominciarono a blaterare qualcosa che pareva ad Ettore un accusare feroce; gli altri si agitarono grugnendo e borbottando. Allora Ettore ordinò a tutti gli alpinisti di abbandonare in tutta fretta il riparo.

Egli si allontanò per ultimo, rinculando verso l’angolo, mentre i grugniti raggiungevano l’intensità d’un brontolio minaccioso e i portatori levavano i pugni contro di lui come contro un malfattore. Sonam Sherpa tirò una barriera di corda, e notò con un senso di disagio: – Sembra che il vento sia calato, Sahib.

Gli alpinisti furono contenti d’essere tornati verso il centro del campo. In cuor suo ognuno pensava che all’ultimo momento di lì era sempre possibile correre ai margini – e questo recava loro conforto. C’è qualcosa di orribile e ripugnante nell’idea di dover essere sepolti dentro le tende o sotto un masso. Ora che non avevano più a che fare con i portatori, tornavano a rendersi conto della situazione della spedizione.

Ettore uscendo allo scoperto si trovò a camminare fino alle ginocchia nella neve di riporto di una valanga. Raggiunse la tenda mensa, e s’accorse di poter scorgere tutt’intorno la sagoma scura delle cose, quasi la sua vista fosse diventata acuta in maniera soprannaturale. Intravide incerti contorni che non gli richiamavano alla mente la disposizione familiare del Campo Base, ma piuttosto il ricordo di un campo abbandonato e smantellato dopo il fallimento di un’esplorazione che tanti anni prima aveva visto in una vecchia fotografia di un libro storico. La spedizione Thanglha rievocava proprio quell’immagine. (continua…)

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SNOWSTORM — Reportage di un’assenza dalla rete — Spedizione k2014.it (clicca per aprire)

K2014.it | East HimalayaTeam | Intervista ad Alberto Peruffo |

SNOWSTORM // L’ULTIMA SPEDIZIONE DI BRUNO BRUNELT
Un romanzo di situazione scritto da Joseph Conrad, Ugo Mursia e Alberto Peruffo
1000 e più variazioni sopra un manoscritto di Joseph Conrad, egregiamente tradotto da Ugo Mursia, ri–situazionato da Alberto Peruffo

Joseph-Conrad_01Joseph Conrad (1857-1924), nato in Ucraina, ma rimasto ben presto orfano di entrambi i genitori, fu affidato alla tutela di uno zio e, appena diciassettenne, partí per Marsiglia spinto da un’irresistibile vocazione per la navigazione. Per vent’anni viaggiò in quasi tutti i mari. L’attenzione suscitata dal suo primo romanzo lo indusse a lasciare la Marina e a stabilirsi in Inghilterra (aveva ottenuto nel frattempo la cittadinanza inglese) per dedicarsi all’attività letteraria. Della sua opera, Einaudi ha pubblicato: Heart of Darkness. Cuore di tenebra («ET Classici»); The Shadow-Line. La Linea d’ombra (serie bilingue); Vittoria; Typhoon. Typhon. Tifone (serie trilingue ed «Einaudi Tascabili»). Racconti di mare e di costa, La freccia d’oro e Vittoria. Un racconto delle isole.

Ugo_Mursia_01Ugo Mursia (1916-1982) è stato uno dei maggiori editori italiani, uomo di lettere e impegno civile, fondatore dell’omonima casa editrice. La sua personale passione per il mare e la navigazione lo spinge verso Joseph Conrad. Sin dagli anni giovanili colleziona edizioni originali e di letteratura critica sull’autore, ma soprattutto intraprende traduzioni e studi. I suoi articoli, pubblicati principalmente su riviste scientifiche e letterarie, italiane e straniere, sono stati raccolti in Ugo Mursia, Scritti conradiani, a cura di Mario Curreli, Mursia, Milano, 1983. Oltre alle traduzioni di Typhoon (1959), Le sorelle. Romanzo incompiuto (1968) e Cuore di tenebra (1978), l’attività di Mursia come esperto conradiano culmina nell’edizione critica dell’intera opera del romanziere anglo-polacco, uscita in cinque volumi tra il 1967 e il 1982 per i tipi della sua stessa casa editrice. A Mursia si deve anche la traduzione italiana della biografia di Joseph Conrad scritta da Jocelyn Baines (1960) e la pubblicazione dell’edizione italiana della rivista statunitense Conradiana. A journal of Joseph Conrad studies, fondata nel 1968. La passione per Conrad lo porta a raccogliere cimeli, documenti, prime edizioni e a finanziare una spedizione in Tasmania per recuperare la prua dell’Otago, il brigantino comandato dallo scrittore che era affondato in quelle acque.

alberto_peruffo_01

Alberto Peruffo (1967), fondatore nel 1999 del progetto culturale Intraisass – Rivista di letteratura, alpinismo e arti visive, il più antico progetto di letteratura di alpinismo comparso in Rete, è il capospedizione di K2014 CAI-150, spedizione esplorativa nell’area Zemu del Kanchenzonga per i 150 anni del Club Alpino Italiano. Per scelta personale ha deciso di “uscire dalla Rete attiva” nel 2012 in preparazione della nuova spedizione e di architettare per l’occasione un “Reportage di un’assenza dalla Rete” come progetto di comunicazione. A causa del divieto dell’uso di apparecchiature satellitari nell’area esplorativa del Kanchenzonga, sotto giurisdizione indiana, saranno inviati come aggiornamento dei “dispacci” tramite staffette (amici e gente del luogo al seguito della spedizione), senza la certezza che arriveranno a destinazione. Se arriveranno, saranno pubblicati prontamente da altitudini.it nel corso della pubblicazione del Romanzo di Situazione, provocatorio sostituto del diario classico di spedizione e della moltitudine di messaggi e di informazioni che caretterizzano l’epoca dei social network. Ricordiamo che Alberto fu tra i primi sperimentatori in assoluto delle comunicazioni satellitari dai campi base, tra cui la memorabile Spedizione Chiantar 2000 nell’Hindu Kusk pakistano, Premio Paolo Consiglio CAAI 2001. Leggi qui l’intervista che introduce l’esperimento. Storyboard visuale dei più importanti progetti e interventi culturali di Alberto.

ABSTRACT
Himalaya orientale. Un uragano di neve e valanghe mai visto prima da occhi umani si scaraventa sul Campo Base e sui fianchi della montagna più alta del mondo ancora da scalare, meta di un’ambiziosa spedizione internazionale. Gli strumenti digitali moderni si scontrano con l’esperienza del vecchio capospedizione. Su ai campi alti gli scalatori non hanno vie di fuga. Al Campo Base accade l’impensabile: alpinisti e portatori sono travolti dalla calamità naturale e dall’impasse sociale che ne consegue, fatti inimmaginabili anche al più esperto degli esploratori. Sarà l’ultima avventura del mitico capospedizione Bruno Brunelt e del figlio Ettore?
Niente di meglio di un cambio radicale di situazione dimostra l’efficacia e la maestria delle parole di un grandissimo scrittore e del suo traduttore. Un romanzo insuperato – «Il più alto esempio di letteratura di mare» scriveva André Gidé subito dopo aver letto Tifone di Joseph Conrad – sulla soglia della più straordinaria prova, accattivante anche per il più insensibile dei lettori: il cambio di situazione.

Dal mare alla montagna una delle più audaci prove di letteratura per noi concepibile.
Tra i personaggi alcuni dei grandi protagonisti poco conosciuti della storia dell’alpinismo mondiale.

«… Si chiamano bufere di neve ad alta tensione. SNOWSTORM… Ad Ettore pareva non andasse… Non si vedono nelle immagini del satellite… Non potevo permettere…»

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