Il Kanchenzonga e la Zemu Ridge viste da sud durante il trekking d'avvicinamento al Goecha-La

Il Kanchenzonga e la Zemu Ridge viste da sud durante il trekking d’avvicinamento al Goecha-La

capitolo . 11

Tutto ciò che Sonam Sherpa, con grande spreco d’urli, riuscì a far capire al capospedizione Bruno Brunelt fu la strana notizia che – Tutti i portatori nei campi alti sono in fin di vita, Sahib.

Ettore stando sottovento poteva udire a meno d’un palmo dalla sua faccia le grida di quei due come in una notte serena si possono udire le parole di due che lontani mezzo miglio si parlano attraverso una strada trafficata. Udiva il disperato – Che cosa?? Che cosa? – del padre e il tono sforzato della voce stridula dell’altro.

– Tutti… sentiti io stesso… Alla radio…. Terribile comunicazione, Sahib… pensato… avvisarvi.

Ettore rimase indifferente, come fosse reso insensibile dalla violenza dell’uragano, che rendeva del tutto vano anche il solo pensiero di agire. D’altronde, essendo molto giovane, s’era trovato a essere così assorbito dall’occupazione di tenere il suo cuore corazzato contro il peggio che egli era ridotto a provare un’avversione invincibile verso ogni altra forma di attività. Non era sgomento; e se ne rendeva conto perché, pur con la ferma convinzione di non riuscire a veder più un’altra alba, quest’idea lo lasciava tranquillo.

Momenti di un eroismo passivo ai quali talvolta s’abbandonano anche i migliori. Molti alpinisti di lungo corso senza dubbio ricordano nella loro esperienza casi in cui un tale stato ipnotico di stoico abbandono si è all’improvviso impadronito di un’intera cordata. D’altronde Ettore Brunelt non aveva larga esperienza d’uomini o di tempeste. Immaginava d’esser calmo – inesorabilmente calmo; in realtà era sbigottito; non in maniera abbietta, ma appena quel tanto che un uomo per bene può concedere, senza ripugnare se stesso.

Era piuttosto un forzato intorpidimento dello spirito. Effetto della lunga, lunga sollecitazione di una tormenta; dell’attesa della catastrofe incombente; e lo stesso aggrapparsi all’esistenza in mezzo a un tumulto smodato costa fatica fisica; fatica incalzante, insidiosa che penetra profonda nel petto dell’uomo per abbatterne e rattristarne il cuore, che è incorreggibile, e che sopra tutti i beni della terra – più della vita stessa – aspira alla pace.

Ettore era intorpidito più di quanto non supponesse. Teneva duro – tutto gelato, ibernato, con le membra rigide; e in una momentanea fantasia di visioni fuggevoli (così chi sta per soccombere, si dice, rivive in un attimo tutta la sua vita) riportò alla memoria ogni sorta di ricordi che non avevano alcun nesso con la situazione presente. Ricordò il nonno, per esempio: un degno artigiano, che dopo un rovescio d’affari s’era messo a letto passando quasi a subito a miglior vita in uno stato di completa rassegnazione. Ettore non si risovvenne naturalmente di questi particolari, ma, del tutto indifferente, gli sembrava di vedere distintamente il volto del poveruomo; e una certa partita a carte giocata da ragazzo a Garès, in Dolomiti, all’interno di una malga, perdutasi poi con tutte le bestie e il pastore; e le folte sopracciglia del suo primo capospedizione; e senza alcuna emozione, come quando negli anni lontani entrava con indifferenza nella sua stanza e la trovava seduta lì con un libro, ricordò sua nonna – anche lei morta, ora – quella energica donna che, pur rimasta senza mezzi, aveva saputo resistere alla dipartita dell’amato e alla lontananza del figlio, il capospedizione Bruno Brunelt.

Tutto ciò nello spazio di un secondo, forse meno. Un braccio pesante gli si era posato sulle spalle; la voce del capospedizione Bruno Brunelt lo chiamava per nome, girdandogli nell’orecchio.

– Ettore! Ettore!

Vi colse un accento di profonda inquietudine. Il vento s’era scagliato con tutto il suo peso sul Campo Base, tentando di raderlo al suolo con continue slavine.

Queste lo sfioravano sopra liberamente, come su un bastione semicoperto: il Campo Base era stato piantato sull’unico posto possibile, apparentemente sicuro; ora, in lontananza, il rinforzo dei sommovimenti lo minacciava paurosamente. La polvere bianca balzava fuori della notte con un biancore spettrale sulle creste, il chiarore del ghiaccio riflettente che alla pallida luce di un lampo minaccioso rivelava la situazione di estrema novità, il rovinio, il turbinare in folle tramestio di ogni scarica sull’esposto corpo della base. Non c’era neanche un attimo di tregua; nei suoi movimenti Ettore, irrigidito, avvertiva il sintomo sinistro di un dibattersi a caso. Nessuno al campo lottava più con intelligenza. Era il principio della fine; e l’accento inquieto e solerte nella voce del capospedizione Bruno Brunelt lo ottenebrò come uno sfoggio di cieca e malefica follia.

L’incantesimo dell’uragano di neve, a quelle quote, aveva ammagliato Ettore. Egli ne era permeato, assorbito; vi si fissava con l’intensità di una muta attenzione. Il capospedizione Bruno Brunelt continuava a gridare, ma il vento si insinuava tra loro come un cuneo solido. Si appese al collo di Ettore come una pietra da macina, e improvvisamente le loro teste sbatterono l’una contro l’altra.

– Ettore! Figlio mio, ehi!

Doveva pur rispondere a quella voce che non voleva chetarsi. Rispose alla maniera abituale: – … Comandate, padre.

Ma subito il cuore, viziato dal folle desiderio di pace che infonde la tormenta, si ribellò contro la tirannia della disciplina e del legame di sangue. Il capospedizione Bruno Brunelt teneva stretta nell’ansa del braccio la testa del suo primogenito, e avvicinandosela alle labbra urlava in maniera incomprensibile. Talvolta Ettore lo interrompeva con un sollecito avvertimento: «Attenzione, padre!» oppure era Bruno Brunelt a gridare con premura l’esortazione «Tienti saldo» e l’intero universo di tenebra pareva impossessarsi del Campo Base. Una pausa. Alcuni uomini ancora barcollavano. E il capospedizione Bruno Brunelt riprendeva i suoi urli. – … Dice… tutti… sommersi… Bisogna vedere… di che si tratta.

Non appena la grande valanga s’era rovesciata con tutta la sua forza sul Campo Base, ogni tenda era divenuta impraticabile; e gli alpinisti e i portatori, storditi e sgomenti, ripararono nel passaggio di sinistra sotto a un grande masso. Era alto come una casa a due piani; dava riparo, sebbene non si potesse vedere a monte. Ogniqualvolta un boato si levava dalla montagna si levava un coro di gemiti nelle tenebre, e si udivano tonnellate di rocce e ghiaccio frantumarsi sui pendii come se da sopra volessero giunger fin lì. Sonam Sherpa aveva continuato con il suo solito tono brusco, ma, come disse più tardi, non aveva mai trovato un branco di gente più irragionevole. Lì dietro erano abbastanza riparati, al sicuro, e per di più senza far nulla; pure continuavano a lagnarsi e a frignare come tanti ragazzi malati. Alla fine uno dichiarò che se si fosse potuto avere almeno un po’ di luce per guardarsi in faccia, non sarebbe poi stato tanto male. Quello star lì all’oscuro ad aspettare che pure quel masso fosse travolto lo faceva impazzire, dichiarò.

– Perché non vai a cercare un po’ di legna, allora, e non la fai finita subito? – gli ribatté Sonam Sherpa.

Ciò provocò un coro d’imprecazioni. Il capo dei portatori fu sommerso da ogni sorta di ingiurie. Sembravano prendersela a male perché non si creava dal nulla in quattro e quattr’otto una lampada per loro. Specie i portatori, piagnucolavano per avere la luce, almeno sarebbero morti al chiaro! Per quanto l’ingiustizia di quegli improperi fosse evidente – perché nessuno poteva sperare di raggiungere le tende con i materiali, che erano al centro del campo pure egli ci si struggeva. Pensava che non era giusto prendersela a quel modo con lui. E lo disse, ma fu accolto da un diluvio d’insolenze. Allora cercò rifugio in un silenzio pieno d’amarezza. Era arcistufo di tutti quei brontolii, lagni, sospiri, ma alla fine si ricordò che in un vano sotto il masso esistevano un paio di lampade a gas messe lì per le sere, nascoste da lui stesso per casi di piacere o di emergenza.

L’accesso a quel vano stava sul fianco destro del masso che, essendo alto due piani, digradava per mezzo d’una fessura con il terreno del campo. Allora era in parte al riparo, essendo per il momento tutte le slavine cadute sul fianco sinistro. Sonam Sherpa, quindi, poteva arrivare al vano senza uscire affatto allo scoperto; ma con sua grande sorpresa non riuscì a trovare nessuno disposto a dargli una mano per infilarsi quel tanto che basta dentro la fessura. Si mise da solo a cercarlo a tentoni da sé, ma uno dei portatori disteso per terra sul suo cammino gli impedì di muoversi con sufficienza.

– Diamine, lo faccio solo per procurarvi un paio di lampade a gas che state chiedendo, – si lagnò, quasi implorando.

Qualcuno gli gridò d’andare a farsi seppellire. Sonam Sherpa si rammaricò che non poteva riconoscere la voce e ch’era troppo scuro per vederci, altrimenti, così disse, avrebbe messo a posto lui quel figlio di un portasassi, in ogni caso, comunque fosse andata a finire. Ciò nondimeno, s’era messo in testa di far vedere che era ben capace di arrivare a quelle lampade, anche a costo di rimetterci la pelle.

Con quelle scariche violente ogni minima mossa era pericolosa. Era già un’impresa disperata starsene al riparo. Per poco non si ruppe una gamba scivolando sulla roccia bagnata al primo tentativo. Cadde sul dorso, e scivolò oltre il riparo senza potere farci nulla, con la pericolosa compagnia d’un martello d’acciaio affilato – probabilmente una piccozza – lasciata a terra da qualcuno. Quell’aggeggio lo rese nervoso quasi fosse una bestia feroce. Non poté evitarlo, poiché il terreno morenico del campo era avvolto nelle tenebre più fitte e impenetrabili; ma lo sentì ottundere contro la coscia, sebbene distante dalla becca.

Inoltre sembrò produrre un rumore straordinario – e sbattere contro l’osso come una grossa sbarra di ferro. Tutto questo riusciva egli a notare mentre veniva avvolto dal vento e dalla neve, disperatamente annaspando lungo la parete nell’inutile tentativo di rimettersi in piedi. La fessura che portava al vano naturale nella roccia non era di facile presa, riuscì quindi a scorgervi un appiglio, uno spiraglio dove infilare bene dentro le mani.

Da buon alpinista, e ancora agile, non ci mise molto ad alzarsi quel tanto che basta; mentre si sollevava, per una fortunata combinazione, riuscì a dare un calcio alla piccozza di sotto e allontanarla. Altrimenti avrebbe avuto paura che quell’arnese gli rompesse le ossa o quanto meno reso la vita difficile nel caso cadesse nuovamente. Dapprima stette fermo. Sentiva il pericolo di quelle tenebre che parevano rendere i movimenti del corpo estranei, impreveduti, difficili da coordinare. Per un istante si sentì tanto scosso che non osò muoversi per timore di «ricominciare daccapo». Non aveva intenzione di rompersi l’osso del collo su per quel masso.

Era già scivolato una seconda volta; e ne era un po’ stordito. Gli sembrava ancora di sentire così chiaramente impresso il colpo della piccozza che tastò con le mani qualche metro più in là per accertarsi che fosse al suo posto. Si stupiva vagamente della chiarezza con cui dietro al masso si percepiva di essere al riparo dal furore della bufera. Quegli ululati, quelle grida scomposte, nel versante più riparato del masso, sembravano avere qualcosa di umano, di passione e di dolore umano – meno grandiosi, ma penetrantissimi. E a ogni boato si sentivano anche dei tonfi – tonfi pesanti, come se dei corpi rotolassero morti liberamente al suolo. Ma al Campo Base sembravano ancora tutti vivi. E ai campi alti? Impossibile. O dentro le tende schiacciate? Non poteva essere.

Tutte queste riflessioni gli balenarono nette con l’esperienza di altre spedizioni, e alla fine restò perplesso. Mai aveva visto una valanga al Campo Base. Eppure, quel rumore gli giungeva attutito dal campo aperto, insieme al turbinio della neve, e allo sbatacchiare dei ferri. Era il vento? Forse. Lì dietro produceva un frastuono simile all’urlo di una folla impazzita. E anche in lui affiorò il desiderio d’un po’ di luce – fosse solo per morire al chiaro – e lo colse una febbrile ansietà di mettersi in contatto con i campi alti (raggiungere subito le lampade per illuminare il campo oltre il riparo).

D’istinto accese la radio; la rotellina di plastica ruotò sulla sede; e fu come avesse spalancato la porta ai rumori della tempesta. Lo accolse un fragore violento di urla rauche; l’impeto della bufera stava per seppellire un tumultuar di strilla soffocate, gutturali che producevano una confusione siderale. Aprì il cappuccio per tutta l’ampiezza possibile e infilò vicino all’orecchio la ricetrasmittente. Dapprima percepì soltanto ciò di cui non voleva immaginare: sei uomini erano dati per dispersi nel veloce rimbalzare delle comunicazioni.

Lassù, a 7350 metri, due tende erano andate distrutte e gli alpinisti in discesa verso il campo 3 a 6760 erano stati travolti da una slavina. A sinistra del campo 4 indistintamente una massa voluminosa si era staccata per scendere sul fianco del profilo del monte, in pendenza. Tutto ruotava senza posa, spazio, ombre, figure. Sonam Sherpa acuì l’udito: gli sembrò di capire che la valanga si abbatté appena gli alpinisti uscirono allo scoperto, e un fascio enorme di neve investì i malcapitati. Sulla neve galleggiarono corpi inerti. Dal campo 2 – in un attimo di incredibile schiarita verso l’alto – videro delle luci scivolare, indicibilmente stupiti. In quel momento sulla montagna scivolarono uomini con braccia aperte e annaspanti nel vuoto. Uno di questi piombò come una pietra che dirupa, con la testa fra le gambe e i pugni serrati, e un cordino di sicura che sferzava l’aria; cercò di ghermire le gambe del compagno, e dalla mano aperta una piccozza rotolò sul pendio. Il suo compagno diede un grido di disperazione, consapevole della fine imminente. Con un trascinio e un afferrarsi precipitoso sulla corda, e con urla forsennate, i due corpi contorti si staccarono dal fianco della montagna e sdrucciolando, con inerzia, convulsi, si schiacciarono in fondo, con un colpo sordo, bestiale. Le voci cessarono. Sonam Sherpa udì alla radio un gemito prolungato attraverso il ruggire e il sibilare del vento; s’immaginò un inestricabile groviglio di uomini e neve, di ramponi e piccozze che ghermiscono il ghiaccio, di braccia tese, di schiene rotolanti, di gambe, di corde, di volti.

– Dio mio! – gridò, inorridito, e chiuse la comunicazione radio con quella visione. (continua…)

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SNOWSTORM — Reportage di un’assenza dalla rete — Spedizione k2014.it (clicca per aprire)

K2014.it | East HimalayaTeam | Intervista ad Alberto Peruffo |

SNOWSTORM // L’ULTIMA SPEDIZIONE DI BRUNO BRUNELT
Un romanzo di situazione scritto da Joseph Conrad, Ugo Mursia e Alberto Peruffo
1000 e più variazioni sopra un manoscritto di Joseph Conrad, egregiamente tradotto da Ugo Mursia, ri–situazionato da Alberto Peruffo

Joseph-Conrad_01Joseph Conrad (1857-1924), nato in Ucraina, ma rimasto ben presto orfano di entrambi i genitori, fu affidato alla tutela di uno zio e, appena diciassettenne, partí per Marsiglia spinto da un’irresistibile vocazione per la navigazione. Per vent’anni viaggiò in quasi tutti i mari. L’attenzione suscitata dal suo primo romanzo lo indusse a lasciare la Marina e a stabilirsi in Inghilterra (aveva ottenuto nel frattempo la cittadinanza inglese) per dedicarsi all’attività letteraria. Della sua opera, Einaudi ha pubblicato: Heart of Darkness. Cuore di tenebra («ET Classici»); The Shadow-Line. La Linea d’ombra (serie bilingue); Vittoria; Typhoon. Typhon. Tifone (serie trilingue ed «Einaudi Tascabili»). Racconti di mare e di costa, La freccia d’oro e Vittoria. Un racconto delle isole.

Ugo_Mursia_01Ugo Mursia (1916-1982) è stato uno dei maggiori editori italiani, uomo di lettere e impegno civile, fondatore dell’omonima casa editrice. La sua personale passione per il mare e la navigazione lo spinge verso Joseph Conrad. Sin dagli anni giovanili colleziona edizioni originali e di letteratura critica sull’autore, ma soprattutto intraprende traduzioni e studi. I suoi articoli, pubblicati principalmente su riviste scientifiche e letterarie, italiane e straniere, sono stati raccolti in Ugo Mursia, Scritti conradiani, a cura di Mario Curreli, Mursia, Milano, 1983. Oltre alle traduzioni di Typhoon (1959), Le sorelle. Romanzo incompiuto (1968) e Cuore di tenebra (1978), l’attività di Mursia come esperto conradiano culmina nell’edizione critica dell’intera opera del romanziere anglo-polacco, uscita in cinque volumi tra il 1967 e il 1982 per i tipi della sua stessa casa editrice. A Mursia si deve anche la traduzione italiana della biografia di Joseph Conrad scritta da Jocelyn Baines (1960) e la pubblicazione dell’edizione italiana della rivista statunitense Conradiana. A journal of Joseph Conrad studies, fondata nel 1968. La passione per Conrad lo porta a raccogliere cimeli, documenti, prime edizioni e a finanziare una spedizione in Tasmania per recuperare la prua dell’Otago, il brigantino comandato dallo scrittore che era affondato in quelle acque.

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Alberto Peruffo (1967), fondatore nel 1999 del progetto culturale Intraisass – Rivista di letteratura, alpinismo e arti visive, il più antico progetto di letteratura di alpinismo comparso in Rete, è il capospedizione di K2014 CAI-150, spedizione esplorativa nell’area Zemu del Kanchenzonga per i 150 anni del Club Alpino Italiano. Per scelta personale ha deciso di “uscire dalla Rete attiva” nel 2012 in preparazione della nuova spedizione e di architettare per l’occasione un “Reportage di un’assenza dalla Rete” come progetto di comunicazione. A causa del divieto dell’uso di apparecchiature satellitari nell’area esplorativa del Kanchenzonga, sotto giurisdizione indiana, saranno inviati come aggiornamento dei “dispacci” tramite staffette (amici e gente del luogo al seguito della spedizione), senza la certezza che arriveranno a destinazione. Se arriveranno, saranno pubblicati prontamente da altitudini.it nel corso della pubblicazione del Romanzo di Situazione, provocatorio sostituto del diario classico di spedizione e della moltitudine di messaggi e di informazioni che caretterizzano l’epoca dei social network. Ricordiamo che Alberto fu tra i primi sperimentatori in assoluto delle comunicazioni satellitari dai campi base, tra cui la memorabile Spedizione Chiantar 2000 nell’Hindu Kusk pakistano, Premio Paolo Consiglio CAAI 2001. Leggi qui l’intervista che introduce l’esperimento. Storyboard visuale dei più importanti progetti e interventi culturali di Alberto.

ABSTRACT
Himalaya orientale. Un uragano di neve e valanghe mai visto prima da occhi umani si scaraventa sul Campo Base e sui fianchi della montagna più alta del mondo ancora da scalare, meta di un’ambiziosa spedizione internazionale. Gli strumenti digitali moderni si scontrano con l’esperienza del vecchio capospedizione. Su ai campi alti gli scalatori non hanno vie di fuga. Al Campo Base accade l’impensabile: alpinisti e portatori sono travolti dalla calamità naturale e dall’impasse sociale che ne consegue, fatti inimmaginabili anche al più esperto degli esploratori. Sarà l’ultima avventura del mitico capospedizione Bruno Brunelt e del figlio Ettore?
Niente di meglio di un cambio radicale di situazione dimostra l’efficacia e la maestria delle parole di un grandissimo scrittore e del suo traduttore. Un romanzo insuperato – «Il più alto esempio di letteratura di mare» scriveva André Gidé subito dopo aver letto Tifone di Joseph Conrad – sulla soglia della più straordinaria prova, accattivante anche per il più insensibile dei lettori: il cambio di situazione.

Dal mare alla montagna una delle più audaci prove di letteratura per noi concepibile.
Tra i personaggi alcuni dei grandi protagonisti poco conosciuti della storia dell’alpinismo mondiale.

«… Si chiamano bufere di neve ad alta tensione. SNOWSTORM… Ad Ettore pareva non andasse… Non si vedono nelle immagini del satellite… Non potevo permettere…»

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